Troppe bevande zuccherate fanno alzare la glicemia

Come allontanare il rischio di ammalarsi di diabete? Concedendosi succhi di frutta e altre bevande zuccherate soltanto di rado e riempiendo il piatto di frutta e verdura ricche di vitamina C, ma anche dando un taglio alle calorie. A poco serve invece una dieta a basso consumo di grassi: sono le conclusioni di tre ampi studi apparsi di recente sugli Archives of Internal Medicine, che ribadiscono l’importanza dell’alimentazione sana per mantenere sempre la glicemia sotto controllo.

BEVANDE – Sul banco degli imputati sono finite innanzitutto le bevande zuccherate: se si esagera con succhi di frutta dolcificati, gassose e soft drinks, il rischio di sviluppare un diabete di tipo due nel giro di pochi anni aumenta fino al 30 per cento. La prova sul campo l’ha fornita Julie R. Palmer, dell’Università di Boston, studiando poco meno di 44 mila donne: la ricercatrice ha chiesto loro di riferire che cosa bevevano abitualmente durante la giornata e poi, seguendole nell’arco di dieci anni, ha registrato i nuovi casi di diabete. Ebbene, il rischio di ammalarsi è risultato in media del 30 per cento più elevato in chi consumava due o più bevande zuccherate al giorno rispetto alle donne che sceglievano bibite simili una volta al mese o ancora più raramente.
Si «salvano» soltanto i succhi d’arancia e di pompelmo e le bibite «diet», che non sembrano aumentare il rischio di diabete.
«Stando ai nostri dati, il meccanismo con cui le bevande zuccherate predispongono al diabete pare essere soprattutto l’incremento di peso che alla lunga spesso comportano in chi le consuma abitualmente», ha spiegato la Palmer. «In questo senso sono “pericolosi” anche i succhi di frutta: sono calorici (a volte perfino più dei soft drinks, come gassose o bevande a base di cola) ma non danno una sensazione di sazietà. Un consiglio? Meglio passare alle bevande “diet”, se proprio non si riesce a rinunciare alla bibita». «Il fruttosio che dolcifica molte bevande aumenta anche il rischio di sviluppare la sindrome metabolica, che comprende tra l’altro colesterolo e trigliceridi elevati, pressione alta, iperglicemia», aggiunge Marco Songini, primario di diabetologia dell’Ospedale Brotzu di Cagliari. «Il problema è noto: in California ad esempio si stanno eliminando i distributori automatici di lattine dalle scuole. Peccato che in Italia (ma anche altrove in Europa) si stiano diffondendo sempre più».

VITAMINA C – Una controtendenza che non ci fa di certo onore. E che potrebbe fare il paio con la continua riduzione del consumo di frutta e verdura che si registra nel nostro Paese: un altro errore, come dimostra la ricerca di Anne-Helen Harding dell’Addembrooke’s Hospital di Cambridge in Inghilterra. La Harding ha seguito circa 22 mila persone per dodici anni rilevandone periodicamente i livelli ematici di vitamina C, indicativi del consumo di frutta e verdura (che ne sono la fonte più cospicua).
Al termine del periodo di osservazione la dottoressa ha verificato che il rischio di sviluppare un diabete di tipo due era fino al 62 per cento superiore in chi registrava i livelli più bassi di vitamina C. Frutta e verdura aiutano a tenere alla larga il diabete perché «prevengono l’obesità e il sovrappeso e forniscono micronutrienti protettivi, ad esempio gli antiossidanti come la vitamina C», scrive la specialista inglese.
«Anche una piccola porzione di frutta e verdura fa bene, ma l’effetto protettivo aumenta al crescere della quantità: meglio quindi consumarla ogni giorno e in abbondanza». Via libera alla dieta mediterranea, in altri termini:«Attenzione però, perché il termine è decisamente abusato», avverte il diabetologo. «Soprattutto nel nostro Paese: dovrebbe essere la culla dell’alimentazione mediterranea, ma spesso e volentieri ciò che mangiamo è ben diverso dalla dieta ricca di legumi, frutta, verdura e cereali che ci caratterizzava in passato. Non a caso l’obesità, anche infantile, in Italia è in crescita».

GRASSI – Per prevenire il diabete, però, a poco servirebbe una dieta a basso contenuto di grassi: lo rivela il terzo studio, condotto da ricercatori del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle su oltre 48 mila donne in menopausa. Le partecipanti alla ricerca sono state suddivise in due gruppi: 19 mila hanno seguito una dieta a basso contenuto di grassi (20 per cento dell’introito calorico), le altre 29 mila hanno proseguito la loro alimentazione abituale. Il rischio di sviluppare diabete è risultato simile in entrambi i gruppi, anche se il pericolo tende comunque a ridursi man mano che si diminuisce l’apporto di grassi e si perdono chili di troppo. Che cosa imparare da tutto questo?
«Sappiamo per certo che mangiamo troppo per il nostro livello di attività fisica: tutti questi studi segnalano che alla base del diabete c’è spesso un eccesso di peso», scrivono nell’editoriale che accompagna i lavori Mark Feinglos e Susan Totten della Duke University, negli Stati Uniti. «Non è ancora sicuro, invece, quali siano i micro e macronutrienti più coinvolti nello sviluppo del diabete: è difficile isolare tutte le componenti dell’alimentazione per scoprire il ruolo di ciascuna. Il primo passo per ridurre il pericolo di diabete, quindi, resta tuttora il taglio delle calorie introdotte». «Questa è solo una faccia della medaglia», sottolinea Songini. «Sicuramente le calorie di troppo devono essere eliminate, ma sempre più ricercatori sostengono che dovremmo guardare anche alla quantità e alla qualità dei carboidrati consumati».

ZUCCHERI – Non tutti gli zuccheri sono uguali, infatti: l’indice glicemico, ad esempio, varia molto da un cibo all’altro e alimenti insospettabili come le patate, il cui indice glicemico è elevato, possono essere meno indicati di un gelato se non si vuol far alzare troppo la glicemia. «Anche iniziare il pasto con la verdura o con la pasta ha effetti diversi sul metabolismo glucidico», prosegue l’esperto. «Tutto ciò indica che, come sottolineano anche queste tre recenti ricerche, la prevenzione del diabete può e deve passare dalla tavola: riducendo le calorie, ma anche controllando la percentuale e la qualità dei carboidrati introdotti», conclude Songini.

 

di Elena Meli

da Corriere Salute

28 agosto 2008