Io, diabetico. Convivere con il ‘dolce male’.

Dalla scoperta che non poteva deliziarsi con torte e cioccolata come gli altri bambini alla sfida dell’alpinismo, Marco Peruffo racconta la malattia.

Quando il diabete decide di colpire sa come fare. A Vicenza, quattro generazioni della famiglia Peruffo hanno combattuto, e lo fanno ancora, le insidiose bizzarrie degli zuccheri nel sangue. Marco, però a 36 anni, ultimo di cinque figli, laurea in legge, funzionario amministrativo, sposato con Sara e alpinista per passione, non ha rancori nei confronti del “male dolce”.

Mentre racconta i ventisette anni da diabetico insulino-dipendente e come ha visto cambiare il trattamento del diabete, confessa: «certo sarebbe meglio se non ci fosse, ma ci sono tante malattie peggiori. Autocommiserarsi non serve. Invece, devi capirti dentro. Il diabete lo devi guardare in faccia, non devi negarlo perché c’è comunque e se non lo affronti è lui che prima o poi ti frega. Devo ringraziare la mia famiglia, i miei genitori, mia moglie, le mie arrampicate, se fino ad oggi non ho complicanze…».

Merito anche della sua forza di volontà, del suo continuo mettersi alla prova. E lui, parla delle sue montagne e delle arrampicate. Le prime sulle piccole Dolomiti vicentine in una estate lontana senza vacanze, rimandato in tre materie. «Ho cominciato per gioco», dice, «arrampicare mi dava una sensazione meravigliosa. Cercavo la fuga ma ho capito che dovevo conoscermi attraverso i punti di forza e i limiti della mia malattia, da quell’anno ho iniziato a curare veramente il diario, prezioso strumento di autogestione».

Lo scorso agosto scala il Peak Lenin nell’altopiano del Tamir, 7.134 metri. La sua mente e il suo corpo sono sulle vette – la prossima supera gli 8.000 – che l’hanno aiutato ad accettare il diabete. Poi, ricorda gli anni in cui c’era solo la glicosuria da fare al mattino, a pranzo e a cena, le punture dolorosissime, le allergie da insulina di suino, i primi reflettometri arrivati nell’82, poi l’inserimento all’Università di Padova in uno studio sperimentale sull’insulina umana entrata in commercio attorno all’86.

«Siamo stati sempre una famiglia attenta alla salute, si faceva attività fisica. Dopo nonno e una zia, papà si ammalò di diabete di tipo I nel 1976, perciò tutti noi figli facevamo un controllo annuale, in genere in ottobre. Nel 1978 presi la mononucleosi. Nel 1979 persi molto peso, ero sempre stanco, disidratato nonostante bevessi litri d’acqua. Il 26 dicembre la diagnosi: diabete giovanile. Non avevo ancora nove anni e sul momento la cosa mi sembrò bella perché l’aveva anche il papà. Quando cominciai a fare tre iniezioni di insulina al giorno mi resi conto che la mia vita era cambiata completamente». Il padre è per Marco la figura di riferimento, anche nei periodi più duri, quelli del rifiuto, della ribellione tra gli 11 e i 18 anni.

«Ero gracile, senza una ragazza, insomma avevo un latente complesso d’inferiorità. Enorme l’appoggio e lo stimolo dei miei genitori, ricordo che provavo a fare le punture sulle patate, i primi tempi me le faceva papà, poi un giorno mi disse “Marco, devi imparare a fare da solo” e compresi che lo faceva per il mio bene. Farle da solo la prima volta fu un momento di libertà. Mi è mancata molto la Nutella perché in quegli anni a un diabetico quasi tutto era proibito. Poi le cose, ad eccezione di quelle burocratiche, sono cambiate in meglio, anche se la storia della malattia dipende sempre da una scelta personale. Una notte, verso gli undici anni, andai in coma ipoglicemico. Allora non c’erano le terapie intensive, oggi in venti minuti il problema si risolve. Quei giorni mi lasciarono dentro un senso di profonda insicurezza anche perché non avevi certezze, il dosaggio dell’insulina si stabiliva su delle sensazioni, e così era per gli altri diabetici».

E a scuola? «Tanta solidarietà da parte delle insegnanti e un appoggio istintivo dai compagni». I medici? «Giuseppe Erle , primario all’ospedale di Vicenza, è stato per me un padre putativo, mi ha insegnato a fronteggiare il diabete come tutti i medici dovrebbero fare con i loro pazienti. Da quando è andato in pensione sono emigrato al centro diabetologico di Treviso, da Massimo Orrasch che si occupa molto di diabete e sport e mi ha emancipato, se così si può dire, infatti, col suo aiuto sono passato da otto mesi al microinfusore». Infine Sara.

La giornata di Marco comincia alle sei con tanta frutta di stagione, yogurt e due fette di pane con marmellata. Alle dieci e trenta una mela contro l’abbassamento della glicemia. Alle tredici e trenta una pastasciutta con un filo d’olio se la sera c’è allenamento, altrimenti una insalatona mista. Dalle diciotto alle ventuno allenamento, quindi a cena con una primo (zuppa d’orzo, risotto), un secondo e un contorno (carne o uova, insalata o verdura), i dolci solo prima di andare a letto. Vino raramente, formaggi con parsimonia, pane integrale, acqua minerale. La pizza un paio di volte al mese. E le iniezioni di insulina. «Il microinfusore», spiega Marco, «è comodo perché lo programmo: 18 unità di insulina basale al giorno, e 15 in boli per coprire i pasti, poi ci sono i controlli della glicemia tutti i giorni, da 6 a 8 nelle 24 ore fino a 12 durante l’attività in montagna; i controlli ogni due mesi della emoglobina glicata, e quelli degli occhi e tutto il resto».

Un messaggio a chi non conosce il diabete. «Ai genitori di investire nel figlio diabetico, perché lui trova sostegno dalle piccole cose. Al diabetico: reagire. Perché tra reagire e non reagire la differenza la facciamo noi, sempre».

 

 

 

di MARIAPAOLA SALMI
Tratto da: “Salute” supplemento de La Repubblica del 10.11.2005