Diabete di tipo 1, prevenzione più vicina? #ADA2020

Nei prossimi anni prevenire o ritardare l’insorgenza del diabete di tipo 1 potrebbero diventare realtà grazie all’anticorpo monoclonale anti-CD3 teplizumab, che ha le carte in regola per diventare il primo farmaco in grado di arrestare la progressione della malattia.
I nuovi risultati presentati al congresso virtuale dell’American Diabetes Association (ADA) 2020 mostrano che una l’infusione per 14 giorni di teplizumab ha comportato un ritardo mediano di 3 anni nell’insorgenza del diabete di tipo 1 rispetto al placebo tra gli individui ad alto rischio. Questi dati vanno ad aggiungersi a quelli presentati lo scorso anno, che mostravano un ritardo di 2 anni.

Al congresso sono stati anche riportati gli esiti di altri interventi volti a fermare la progressione del diabete di tipo 1, tra cui un inibitore dell’interleuchina-21 (anti-IL-21) con e senza il GLP-1 agonista liraglutide e l’anticorpo monoclonale golimumab, entrambi in soggetti di nuova diagnosi.

«Viviamo in tempi molto eccitanti in termini di terapie modificanti il diabete di tipo 1. Siamo a un punto di svolta nella capacità di influenzare il decorso della malattia» ha dichiarato Jessica Dunne, ex senior director della ricerca presso l’organizzazione no-profit JDRF.

A suo parere sarà probabilmente necessario usare più agenti e più biomarcatori per poter prevedere la risposta del singolo paziente e personalizzare il trattamento. «Non tutti rispondono alle terapie nello stesso modo. Stiamo facendo progressi, ma non si tratta di un approccio unico per tutti. Credo che ci saranno diversi modi e terapie per personalizzare il trattamento» ha aggiunto.

Prevenzione del diabete di tipo con teplizumab
Lo studio di fase II TN-10, finanziato dal National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases, randomizzato e controllato con placebo, ha coinvolto 76 familiari pediatrici e adulti di pazienti con diabete di tipo 1 ad alto rischio, ovvero con due o più autoanticorpi associati al diabete di tipo 1 e una tolleranza subclinica al glucosio.

I risultati, riportati al congresso ADA del 2019 e pubblicati sul New England Journal of Medicine avevano mostrato che l’infusione di teplizumab per 14 giorni aveva ritardato di 2 anni l’insorgenza del diabete di tipo 1. I nuovi dati relativi all’estensione dei benefici per ulteriori 3 anni sono stati presentati al congresso di quest’anno da Emily Sims, del Riley Hospital for Children e dell’Indiana University Center for Diabetes and Metabolic Diseases, Indianapolis.

A oggi rimane libero dal diabete il 50% del gruppo trattato con teplizumab contro il 22% del gruppo placebo, in confronto rispettivamente al 53% e al 28% dell’anno scorso. Il tempo mediano all’insorgenza del diabete è ora di circa 5 anni nel gruppo teplizumab rispetto a 2 anni con il placebo. L’anticorpo monoclonale ha comportato un rischio ridotto del 54% di progressione verso il diabete di tipo 1 insulino-dipendente (p=0,01), senza nuovi eventi relativi alla sicurezza.

I livelli di peptide C, un marcatore della produzione endogena di insulina, erano significativamente più alti nel gruppo teplizumab rispetto al placebo (p=0,009), mentre prima dello studio risultavano simili e in calo in entrambi i gruppi. Nel gruppo placebo il loro declino è proseguito, mentre i livelli sono aumentati nei pazienti trattati con teplizumab rispetto a quelli a inizio sperimentazione (p=0,02).

«L’efficacia precoce e pronunciata del farmaco, seguita dalla stabilizzazione della funzione delle cellule beta, suggerisce che il trattamento ripetuto con teplizumab o l’aggiunta di altri agenti complementari nei momenti chiave del decorso clinico può essere utile per prolungare il ritardo o addirittura prevenire la diagnosi di diabete di tipo 1» ha detto Sims.

A teplizumab è stata concessa una breakthrough therapy designation dalla Fda e una designazione PRIME dall’Ema. L’azienda che sta sviluppando il farmaco, Provention Bio, ha avviato le procedure di richiesta di commercializzazione per il ritardo o la prevenzione del diabete di tipo 1 insulino-dipendente da utilizzare in pazienti presintomatici. Il completamento della domanda è previsto per il quarto trimestre 2020.

La società sta attualmente valutando il farmaco in uno studio di fase III su pazienti con diabete di tipo 1 di nuova diagnosi chiamato PROTECT.

Liraglutide più anti-IL-21 come opzione modificante la malattia
Thomas Pieber, capo della divisione di endocrinologia e metabolismo della Medical University of Graz, in Austria, ha presentato i dati di uno studio multicentrico internazionale su un anti-IL-21 combinato con liraglutide negli adulti con diagnosi recente di diabete di tipo 1.

L’idea alla base dell’associazione in questi pazienti, in aggiunta all’insulina, è legata alla possibilità di mantenere la produzione residua di insulina endogena portando a un migliore controllo glicemico, a una riduzione del fabbisogno di insulina e potenzialmente a un rischio ridotto di complicanze a lungo termine, oltre a una migliore qualità di vita.

Si prevede che l’anti-IL-21 riduca l’infiammazione mediata dalla IL-21, mentre liraglutide proteggerebbe le cellule beta dall’apoptosi mediata da citochine. Secondo Pieber questa combinazione dovrebbe «mantenere la tolleranza immunologica, consentendo alla massa di cellule beta di sopravvivere, riacquistare funzionalità e infine controllare la glicemia nei pazienti con diabete di tipo 1».

Nello studio della durata di 54 settimane, un totale di 304 adulti di età compresa tra 18 e 45 anni con diagnosi di diabete di tipo 1 nelle 20 settimane precedenti, sono stati randomizzati in quattro gruppi: anti-IL-21 12 mg/kg per via endovenosa somministrati ogni 6 settimane, liraglutide 1,8 mg/die sottocute, una combinazione dei due farmaci o placebo. Tutti i pazienti hanno ricevuto insulina secondo necessità.

Alla settimana 54 l’endpoint primario, ossia l’area sotto la curva (AUC) del peptide C dopo un test di tolleranza del pasto misto, era del 48% più elevato con la terapia di combinazione rispetto al placebo (p<0,01) e del 33% superiore alla sola liraglutide (p=0,02). Con il solo anti-IL-21, la secrezione di peptide C è aumentata del 23%, una tendenza non significativa (p=0,14), come anche la differenza tra liraglutide da sola e placebo (p=0,38).

Dopo un ulteriore periodo di osservazione di 26 settimane, la secrezione di peptide C era superiore del 59% per l’associazione rispetto a sola liraglutide (p<0,01) ma del 32% inferiore con liraglutide da sola rispetto al placebo (p<0,01).

 

da PHARMASTAR