Sono una persona meravigliosa, come mio nonno Socrate.

Mio nonno si chiamava Socrate, era altissimo, lo ricordo enorme, ma non l’ho mai visto in piedi. 
Non l’ho mai nemmeno visto camminare. 
Quando sono nata io, nonno Socrate, padre di mio papà, era già sulla sedia a rotelle da almeno trent’anni. Ci era finito prima dei suoi trenta a seguito di un incidente automobilistico.
Ero così felice ogni volta che lo vedevo perché potevo portarlo qua e là spingendo la sua sedia a rotelle. O almeno, io credevo di spingerla la sua sedia enorme e pesantissima, ma lui senza che me ne accorgessi muoveva da solo le ruote. 
Poi quando arrivavamo a destinazione mi pigliava su e giocavamo con le carte.
Nonno era un grande giocatore di poker, un grande tombeur de femmes, amava le macchine che correvano veloci (e una infatti lo ha quasi ammazzato), i gioielli e l’arte. Era buono con me, ma quando lo sentivo parlare con mio papà o con gli altri adulti capivo che con loro non era per niente buono, o almeno non le mandava a dire (chissà da chi ho ripreso) e comunque era una persona che con le parole sapeva far male.

Nonno aveva due mogli, quattro cani, un figlio e una nipote (io), ecco magari non necessariamente in questo ordine, ed era completamente immobilizzato dalla vita in giù.
Ha lavorato tutta la vita, amato tutta la vita, è stato il primo in Italia a brevettare un’auto per paraplegici, con il cambio automatico e tutti i comandi al volante, compreso il freno, e fino al giorno della sua morte è andato in giro in auto.

È morto quando io avevo 4 anni. I suoi reni non ce l’hanno fatta più.
Per me nonno Socrate era ‘normale’, un nonno, come gli altri. Solo era l’unico degli adulti che mi rendeva fiera e orgogliosa di me stessa, perché, secondo me, lo aiutavo ad andare di qua e di là.

Certo era invalido, certo era handicappato: le gambe non gli funzionavano, non poteva camminare. 
Ma che fosse invalido e handicappato non cambiava di una virgola il suo carattere, come gli altri lo vedevano, il suo ruolo nella società e la sua volontà di esserci e di fare. Con una montagna di difficoltà in più per lui e la sua famiglia. Il fatto che fosse invalido e handicappato non cambiava di una virgola la mia venerazione e il mio amore per lui. 
Era Socrate Ulivi. Era mio nonno. 
La definizione medica e giuridica del suo status non cambiava certo chi era e come era.

Io sono invalida e handicappata. 
Come nonno ho un organo del corpo che non funziona più: a lui non funzionavano le gambe e a me non funziona il pancreas. 
La differenza è che il mio è un organo vitale: senza gambe vivi (lui ha vissuto per più di trent’anni), senza pancreas muori nel giro di qualche ora.
Lui, fosse vissuto oggi, magari avrebbe messo delle protesi, o forse no. Io oggi per rimanere in vita ho l’insulina. 
Non sto dicendo che sia meglio senza gambe piuttosto che senza pancreas. 
Tutte le malattie sono peggio. 
Ma la sostanza non cambia, perché a causa della mia malattia la mia vita è irreparabilmente diversa.

Come viva uno senza gambe è di immediata comprensione per tutti, perché le gambe le governiamo noi. Come viva uno senza le cellule del pancreas che producono l’insulina, se non hai il diabete di tipo 1, non lo capisci. Perché il pancreas è parte di un meraviglioso meccanismo biologico che ci tiene in vita, ma non è governato da noi. 
Difficile da capire per chi non ha il diabete di tipo 1: pensate che tutte le volte che dovete mangiare, bere, correre, camminare, muovervi, fare sport, fare le faccende, fare l’amore, litigare, guidare, andare in bici, o avete la febbre, il raffreddore, qualunque problema di salute, etc etc etc ognuna di queste volte non potete agire come fate voi, ma vi dovete fermare (dieci secondi, qualche minuto, a volte intere mezz’ore e a volte intere giornate) e rifocalizzare il cervello sulla glicemia e sul calcolo dell’insulina o dello zucchero da prendere. 
Ecco, per chi non ha il diabete di tipo 1 pensate che nell’80-90% delle azioni che fate dovete, anche solo per pochi secondi, fermarvi (o parallelamente pensare ad altro che non è l’azione che state facendo) e prendere una decisione terapeutica su un farmaco che potrebbe essere mortale. 
Forse così si capisce.

Embè, ci sono persone, gente che lavora nelle associazioni che dovrebbero tutelare noi malati di diabete di tipo 1 che, poiché pensano che essere invalidi o handicappati sia una vergogna, renda peggiori e sia una colpa o una macchia, ebbene questi dicono che piuttosto che far chiamare il proprio figlio invalido o handicappato, ecco allora è meglio cambiarle le leggi a tutela dei malati (e delle loro famiglie quando i malati sono i bambini), cancellarle, rifarle.

Sono persone che pensano e insegnano ai loro figli che la diversità sia peggiore della normalità. Che avendo un figlio (o essendo loro stessi) per forza di cose diverso (perché non può mangiare una caramella quando gli pare-ad esempio- ma si deve fermare, controllare la glicemia, fare l’insulina. Tutte le volte. Due buchi. Tre minuti. Per mangiare una caramella), piuttosto che ‘farlo sentire’ diverso gli inculcano una normalità forzata, o addirittura eroica (sei tanto uguale agli altri che puoi perfino attraversare la Manica o andare sulla luna).

Queste persone non insegnano ai loro figli quanto la diversità sia magnifica e nessuno lo ha insegnato loro, non sanno e non capiscono che la diversità è il valore più grande di ciascun individuo, perché è ciò che lo rende unico e irripetibile, ed è una risorsa imprescindibile di ogni società che voglia evolversi: senza le diversità e l’inclusione delle stesse una società rimane sempre uguale e ciò che resta uguale e non evolve, muore.

Queste persone non permettono ai loro figli di brillare nella loro diversità e anzi li opprimono con una coltre di normalità forzata.

Queste persone pensano che la malattia sia una colpa. Che i diversi siano da scansare. Che invalido e handicappato siano delle offese e non delle constatazioni legali di dati di fatto medici e giuridici.

Queste persone, che purtroppo non hanno accettato la loro malattia e/o quella dei loro figli, si permettono di discettare dei diritti dei malati, farneticano di levare tutele giuridiche e mediche perché infastiditi da parole che semplicemente indicano uno stato di fatto.

Queste persone non si devono permettere di fare un solo passo in mio nome.

Io sono diversa. Io sono malata. Io sono invalida. Io sono handicappata. 
E sono una persona meravigliosa, come mio nonno Socrate.

 

Francesca Ulivi