La responsabilità del diabete

Convivere con il diabete è una grossa responsabilità. Il diabete di tipo 1 non è una di quelle malattie per cui il medico prescrive una terapia che il paziente dovrà seguire alla lettera senza farsi troppe domande. È una malattia che richiede un’attenzione costante, perché la terapia va adattata di continuo alla situazione in cui ci si trova. Non si può pretendere che una persona per tutta la vita mangi esattamente le stesse cose ad ogni pasto, quindi è necessario capire quanta insulina fare in base a ciò che si mangia.
Poi ci sono lo sport, le passeggiate, le malattie stagionali, le variazioni ormonali e persino le emozioni che portano spesso a risultati difficili da prevedere. Insomma, bisogna tenere in considerazione tantissime variabili, non si possono iniettare unità di insulina uguali tutti i giorni indipendentemente da cosa si fa o cosa si mangia o come si sta.
Il diabetologo è una figura importantissima che più che darci la terapia bella e pronta deve insegnarci come affrontare tutte queste diverse situazioni. Ma quante visite facciamo in un anno? Quattro se siamo fortunati e difficilmente durano più di 15 minuti l’una.
In pratica solo una delle 8760 ore che compongono un anno le passiamo insieme al diabetologo, il resto del tempo siamo praticamente soli. Certo si spera che il diabetologo sia sempre disponibile nelle situazioni di emergenza, ma ciò non toglie che ci venga affidata la gestione della nostra malattia, che non è una di quelle da “prendo una pasticchetta la mattina e me ne dimentico”.
È brutto pensarlo, ma alla fine quanti minuti al giorno riusciamo a dimenticarci del diabete? Ammettiamolo, è una presenza ingombrante e ammettiamo anche che non è affatto facile mantenere la glicemia nei giusti limiti.
C’è chi riesce a vivere tutto questo più serenamente di altri e chi no, ma penso che per tutti noi ci siano periodi più o meno buoni. Capitano quei giorni di glicemie così disastrose che si è costretti ad inseguirle per limitare i danni perché non si riesce a fare altro. Ed in questi periodi ci si sente esausti e vulnerabili, come se si avesse una spada di Damocle che pende sulla propria testa.
Alcuni giorni penso di essere esagerata, in altri invece di non stare abbastanza attenta, di non calcolare tutto nel dettaglio, di aver sbagliato qualcosa. Il problema è che tutta questa responsabilità che si ha nello gestire questa malattia è spesso accompagnata da un grosso senso di colpa quando le cose vanno male.
Almeno per me è così, ma non credo di essere l’unica. Poi una sera leggo di qualcuno con le prime complicanze ed un misto di paura-senso di colpa mi assale, mi rigiro nel letto con la testa piena di pensieri: starò facendo tutto come si deve? Forse questo o quello lo potevo evitare, forse non sono stata abbastanza attenta a prevenire quell’ipoglicemia, forse dovevo prevedere quell’iperglicemia, dovevo fare il bolo prima o dopo, ho calcolato male i tempi, ho sbagliato il calcolo dei carboidrati.
Così, in questi momenti, ogni iperglicemia la vivo come un processo di autodistruzione dall’interno. Immagino quell’eccesso di molecole di glucosio che scorre nel mio sangue e va in giro a fare danni, come un’orda di barbari durante un saccheggio. Ogni ipoglicemia, invece, la immagino come una martellata in testa che si porta via parte del mio cervello oppure come un pugno sul cuore che lo indebolisce sempre di più.
Penso che, malgrado le difficoltà, così posso vivere bene ma è lo spettro delle complicanze che aleggia sulle nostre vite a preoccuparmi.
So che con le nuove insuline, i microinfusori, i sensori la probabilità di sviluppare complicanze si è abbassata di molto e che in futuro, con nuove terapie, diventerà sempre più bassa. Queste prospettive mi fanno sperare ottimisticamente che tutto ciò non mi riguarderà mai. Anche perché la troveranno una cura prima o poi e sarebbe anche ora visto che sono passati cento anni dalla scoperta dell’insulina. 
Magari uno sta tutta la vita a preoccuparsi delle glicemie e delle complicanze per poi morire per colpa di un vaso che cade da un balcone, può succedere.
Alla fine siamo esseri umani, tutti invecchiamo, tutti moriamo e tutti riusciamo a convivere in qualche modo con quest’idea. Non stiamo mica sempre a pensarci, sarebbe impossibile vivere sereni altrimenti, ma dare sfogo alle proprie paure però ogni tanto è liberatorio.
Speriamo che tutto questo impegno serva a farci arrivare il più sani possibile al giorno in cui verrà finalmente trovata la cura definitiva. E se qualcosa andasse storto cerchiamo di non colpevolizzarci troppo.
Dovrei dirlo a me stessa più che a chiunque altro.

 

 

 

 

di Serena Sanna