Il diabete? Si batte sul tempo

Il diabete mellito giovanile o diabete di tipo 1 è una malattia metabolica causata da un difettoso funzionamento del sistema immunitario: le cellule beta del pancreas che producono l’insulina erroneamente vengono riconosciute come estranee, e quindi attaccate e distrutte dal sistema immunitario. La distruzione delle cellule beta pancreatiche ha una lenta evoluzione nel tempo, ma non dà alcun sintomo fino a quando circa l’80% di esse è stato distrutto. A questo stadio, i livelli di insulina prodotta raggiungono una soglia critica per l’organismo. Il deficit di insulina si manifesta con i ben noti sintomi della malattia (sete, aumentata produzione di urina, perdita di peso), legati all’aumento dei livelli di glucosio nel sangue.

L’unIca terapia per il diabete tipo 1 è costituita, da 70 anni a questa parte, da ripetute iniezioni quotidiane di insulina. Così però si corregge solo la conseguenza della distruzione delle beta cellule, ma non la causa della malattia, cioè il difetto del sistema immunitario.

Una recente sperimentazione clinica coordinata da Lucienne Chatenoud presso l’Istituto Necker di Parigi e pubblicata sulla rivista «New England Journal of Medicine» potrebbe in futuro offrire nuove possibilità terapeutiche ai pazienti diabetici tipo 1. L’idea alla base dello studio è di “riordinare” il sistema immunitario, facendo uso di un anticorpo diretto contro la molecola CD3.
Questa molecola è presente sui linfociti T, che sono i principali responsabili dell’attacco auto-immune. Topi di laboratorio trattati con un anticorpo anti-CD3 non sviluppano diabete. I meccanismi di questo effetto sono solo in parte conosciuti, ma rispecchiano l’azione dell’anticorpo sui linfociti T, cui segue l’attivazione di linfociti regolatori della risposta immunitaria. In seguito a queste osservazioni su topi, i ricercatori hanno raccolto, entro 4 settimane dalla diagnosi di diabete, 80 pazienti tra i 12 ed i 39 anni. Seguendo la procedura comune a tutti gli studi in cui un nuovo farmaco viene sperimentato sull’uomo, metà dei pazienti ha ricevuto l’anticorpo anti-CD3. L’altra metà ha invece ricevuto un’innocua sostanza di controllo, detta placebo. Per garantire la massima imparzialità di questi studi, né pazienti né medici curanti possono sapere se la sostanza somministrata è l’anticorpo o il placebo (studio “in doppio cieco”).

La ricerca ha mostrato che i pazienti che avevano ricevuto l’anticorpo anti-CD3 mantenevano, a un anno e mezzo di distanza, una maggiore produzione residua di insulina rispetto ai soggetti trattati con placebo. In altre parole, la somministrazione dell’anticorpo era in grado di fermare l’ulteriore distruzione delle beta cellule pancreatiche ancora presenti.
Di conseguenza, i pazienti trattati con l’anticorpo anti-CD3 mantenevano livelli di glicemia ottimali con dosi assai inferiori di insulina. NeI 75% dei pazienti trattati con l’anticorpo, ma in nessuno di quelli trattati con placebo, tali dosi di insulina erano, un anno e mezzo dopo la diagnosi, addirittura inferiori alle 0,25 unità per kilogrammo al giorno (circa 18 unità al giorno per un individuo di media statura).
In altre parole, nel 75% dei pazienti trattati con l’anticorpo anti-CD3 si può parlare – almeno per questo periodo di osservazione di un anno e mezzo – di una quasi completa guarigione in termini metabolici. Quali sono i rischi della terapia con anti-CD3? Se ne sa poco, dato il breve periodo di osservazione. Gli effetti collaterali sono stati tuttavia modesti, e limitati al periodo (6 giorni) di somministrazione del farmaco. E’ importante notare che non si tratta di una terapia immunosoppressiva del tipo utilizzato per i trapianti d’organo. L’anticorpo anti-CD3 non è infatti stato somministrato per mesi o anni, ma per soli 6 giorni: quindi con un rischio assai inferiore di infezioni.

Quali prospettive apre questo studio per i pazienti diabetici tipo 1? Ulteriori ricerche sono necessarie per tentare un’applicazione su larga scala di questa terapia. I pazienti considerati avevano tra i 12 ed i 39 anni ma molti diabetici sono di età inferiore e presentano solitamente un attacco auto-immune più aggressivo, più difficile da fermare.

In secondo luogo, uno dei criteri di selezione dei partecipanti allo studio era la presenza di una produzione residua di insulina (cioè la presenza di una consistente frazione di beta cellule pancreatiche ancora risparmiata). Inoltre, non sorprendentemente, i pazienti che maggiormente si giovavano della terapia con anticorpo anti-CD3 erano quelli con una produzione residua di insulina più alta. Tuttavia, le condizioni (in termini di produzione di insulina) non sono sempre così favorevoli, soprattutto nei diabetici più giovani.

Come ovviare a questo problema? La soluzione logica sarebbe intervenire più precocemente. In effetti, al momento della diagnosi, solo il 20% delle beta cellule possono ancora essere salvate. La percentuale potrebbe essere più alta se si potesse intervenire in anticipo. Per farlo, bisogna essere in grado di identificare soggetti ancora sani che svilupperanno in seguito la malattia. Sono in fase di sviluppo nuovi test immunologici per individuare, attraverso un prelievo di sangue, i linfociti T che causano la distruzione delle be-ta cellule pancreatiche. Questo esame potrebbe fornire una diagnosi assai più precoce, in un momento in cui nessun sintomo è ancora presente ma l’attacco auto-immune è già silenziosamente in atto e può essere fermato. Uno studio di questo tipo è in corso all’Istituto Necker di Parigi. L’Università di Torino vi è coinvolta, grazie al Gruppo di studio piemontese per l’epidemiologia del diabete.

 

 

 

di ROBERTO MALLONE
PAOLO CAVALLO-PERIN ( Istituto Necker, Parigi e Università di Torino )

da: “Tutto Scienza e Tecnologia” del 28.09.05