Diabete di tipo 1: Si può prevederlo con largo anticipo e forse in futuro anche ‘vaccinarsi’

A colloquio con Prof. Marco Baroni, Coordinatore nazionale della Commissione didattica della SID e professore associato di Endocrinologia dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma


● Uno studio condotto in Sardegna dimostra l’elevato rischio di sviluppare il diabete di tipo 1, nei familiari di primo grado di pazienti affetti da diabete di tipo 1

● Questo apre la strada ad un possibile screening precoce, basato sul dosaggio degli auto-anticorpi, per prevedere le mosse della malattia, e in futuro a somministrare terapie atte a prevenirla o a rallentarne il decorso. Promettenti i risultati di un ‘vaccino’

Il diabete di tipo 1 è caratterizzato dall’assoluta mancanza di insulina per la distruzione completa delle beta cellule pancreatiche, che sono deputate alla produzione di insulina.  Colpisce la fascia di età giovanile, prevalentemente tra i 5 e 15 anni di età. A causa della distruzione delle beta cellule, a differenza del diabete di tipo 2 dell’adulto, l’unica terapia attualmente disponibile è la somministrazione di insulina mediante iniezione sottocutanea. Il diabete di tipo 1 è causato da un processo autoimmune che porta alla distruzione delle beta-cellule pancreatiche. Questo processo autoimmune può impiegare mesi o anni prima di determinare la comparsa del diabete. L’esordio del diabete di tipo 1 è spesso acuto (la chetoacidosi diabetica) con un quadro di gravissimo scompenso che può portare al coma.

 

La Sardegna, insieme alla Finlandia, ha la più elevata incidenza di diabete di tipo 1 nella fascia di età 0-15 anni.  Rispetto alle altre regioni italiane, l’incidenza è 4-5 volte più elevata. Una possibile spiegazione di questa incidenza così elevata risiede nell’isolamento della popolazione sarda che può avere favorito la selezione di fattori genetici in presenza di particolari fattori ambientali. Alla diagnosi, ma spesso anche mesi o anni prima, sono presenti degli autoanticorpi anti-insula pancreatica, che identificano la malattia.

Nella pratica clinica l’identificazione di questi anticorpi permette di confermare la diagnosi di diabete tipo 1, ma questi anticorpi potrebbero essere utili anche per identificare soggetti che hanno già attivato il processo autoimmune ma non hanno ancora sviluppato la malattia. Gli autoanticorpi comunemente dosati nella pratica clinica sono gli anti-GAD, anti-IA2 e anti-insulina. L’obiettivo della ricerca era di stabilire la prevalenza dei soggetti positivi per anticopri tra i familiari di primo grado con diabete di tipo 1, quando la glicemia era ancora normale per poterne seguire nel tempo l’evoluzione. La Sardegna, proprio per l’elevatissima incidenza, offriva le condizioni migliori per studiare il fenomeno. Sono state 160 le famiglie che abbiamo potuto valutare – dice il prof. Marco Baroni – al cui interno era presente un soggetto con diabete tipo 1. E’ stata riscontrata la presenza di questi anticorpi nel 12,7% dei familiari valutati; si tratta di una percentuale circa 4 volte superiore a quanto osservato in altre popolazioni Europee e 2-3 volte superiore aquanto osservato nelle popolazioni degli USA”.

24 soggetti con anticorpi positivi, ma non diabetici, sono stati quindi seguiti per due anni.Di questi, 9 (quasi il 40%) sohannosvilupato diabete, mentre altri cominciano a presentarealterazioni della glicemia. Lostudio ha confermato quindi l’elevato rischio familiare di diabete di tipo 1 in Sardegna e fornito l’evidenza di come sia possibile identificare soggetti a rischio particolarmente elevato. Questo screening si basa su esami comunemente disponibili nella pratica clinica. “Va ricordato – commenta il Prof. Baroni – come la precoce identificazione dei soggetti a rischio permette di ridurre l’evenienza di un esordio acuto (chetoacidosi e coma), condizione talmente grave da rappresentare, nelle sue forme più estreme, un rischio di vita. “La possibilità di individuare soggetti a rischio – commenta il prof. Stefano Del Prato, presidente della Società Italiana di Diabetologia – può rivelarsi anche molto utile anche per verificare l’impatto di terapie per prevenire il diabete di tipo 1 o trattamenti atti a rallentare l’evoluzione della malattia tanto più che oggi risultati incoraggianti sono stati ottenuti con terapie di immuno-intervento.

Una ‘vaccinazione’ con un antigene bersaglio dell’autoimmunità (HS60) potrebbe fornire nuove speranze a quelle persone ad alto rischio in quanto familiari di primo grado”, un tema che sarà oggetto  di discussione nell’ambito del XXV Congresso della Società Italiana di Diabetologia.

 

 

 

 

 

Ufficio stampa SID

Maria Rita Montebelli –

Andrea Sermonti –