Terapie di supporto nella malattia renale

 

Sono circa 46 mila le persone in Italia che vivono grazie alla dialisi e 15 mila quelle che hanno subìto un trapianto renale, come conseguenza di malattie croniche del rene che compromettono irreversibilmente la funzione di questi organi. Ben più ampio è il numero di quelle che, pur non essendo giunte alla necessità di sottoporsi alla dialisi, hanno danni renali più o meno gravi: sono oltre 2 milioni in Italia, secondo una stima basata su dati raccolti negli Stati Uniti.

Esistono poi pesanti complicanze, che spesso si associano alle nefropatie. L’anemia, ad esempio, può compromettere seriamente la qualità di vita di questi pazienti ma oggi può essere controllata efficacemente grazie all’impiego dei farmaci biotecnologici. Cautela, invece, esprimono gli esperti nei confronti dei biosimilari, i farmaci copia degli originator biotech , poiché il processo produttivo di questi ultimi è estremamente complesso.

La malattia renale cronica ha un andamento progressivo: il danno già subito dal rene non si può riparare, ma molti dei fattori che contribuiscono ad aggravarlo possono essere controllati con opportune terapie e modifiche degli stili di vita. Una diagnosi il più possibile tempestiva è quindi indispensabile per arrestare o, almeno, rallentare la progressione del danno renale.

Le condizioni che aumentano il rischio di malattia renale cronica sono ben note: diabete di tipo II, ipertensione, obesità e ipercolesterolemia sono alcuni dei più importanti fattori di rischio modificabili, che si aggiungono a quelli non modificabili come l’età e la familiarità.

“È il momento di assumerci con urgenza un impegno – ha dichiarato oggi a Napoli Vittorio Andreucci, Ordinario di Nefrologia all’Università degli Studi di Napoli Federico II e Presidente della Fondazione Italiana del Rene – Occorre avviare con prontezza e determinazione un programma di prevenzione e trattamento precoce delle nefropatie, settore al quale finora non si è prestata sufficiente attenzione”.

Molti dei pazienti con insufficienza renale cronica giungono a una compromissione totale della funzione renale che richiede di iniziare la dialisi, un procedimento artificiale per eliminare i prodotti di rifiuto del metabolismo dal sangue. I dati sono allarmanti: negli ultimi cinque anni, in Italia, si è registrato un incremento della prevalenza dei pazienti dializzati pari al 20%.

“I pazienti in dialisi in Italia sono in crescita costante – ha sottolineato Diego Brancaccio, Cattedra di Nefrologia presso l’Università degli Studi di Milano e Direttore della UO di Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale San Paolo – Parallelamente, cambiano anche l’età dei dializzati e le cause che determinano la malattia. Nei nostri centri dialisi, ci sono pazienti sempre più anziani: mentre è in lieve riduzione il numero dei pazienti giovani dializzati, cresce quello dei malati al di sopra dei 65 anni. Sempre più spesso le cause del danno renale sono ipertensione non controllata e diabete di tipo II, malattie croniche che è possibile controllare”.

Nella condizione del malato in dialisi, definita insufficienza renale terminale, insieme alla capacità di eliminare sali e scorie metaboliche i reni perdono un’altra funzione essenziale per la sopravvivenza: la produzione di eritropoietina, un ormone proteico che stimola il midollo osseo a produrre globuli rossi. La mancata produzione di questo ormone determina una grave anemia e, di conseguenza, l’insufficiente ossigenazione dei tessuti che, in condizioni di normalità, è garantita dai globuli rossi: per la sopravvivenza del malato di insufficienza renale cronica correggere l’anemia è quindi indispensabile quanto fare la dialisi.

Per l’anemia renale si impiegano farmaci biotecnologici, le eritropoietine o Epo, che da circa 20 anni hanno quasi totalmente rimpiazzato le trasfusioni alle quali i pazienti dovevano regolarmente sottoporsi, prima dell’avvento delle Epo.

“Le eritropoietine hanno avuto un impatto fortissimo sulla qualità di vita dei dializzati – ha spiegato Diego Brancaccio – Prima delle Epo, infatti, il malato nefropatico doveva ricevere da una a tre trasfusioni al mese, incorrendo nel rischio di emosiderosi – un accumulo di ferro tossico per l’organismo – e nel rischio di infezioni virali. Le eritropoietine hanno consentito di superare i problemi causati dalle trasfusioni – aggiunge – perché correggono l’anemia nel modo più simile a quello fisiologico, stimolando la produzione dei globuli rossi”.

Le Epo hanno quindi contribuito a restituire al malato nefropatico l’opportunità di condurre una vita il più possibile attiva e vicina alla normalità, con tutti i benefici fisici e psichici che ciò comporta, in una situazione così particolare come quella di una persona in dialisi.

Le Epo, come tutti i biotecnologici, non sono farmaci di sintesi chimica, ma sono prodotte da cellule viventi opportunamente “istruite” a sintetizzarle, grazie a un frammento di Dna che viene inserito nel loro corredo genetico. I protocolli di produzione dei farmaci sono molto complessi e richiedono controlli estremamente accurati, perché il prodotto finale abbia caratteristiche di sicurezza ed efficacia assolutamente affidabili e costanti nel tempo. È possibile che, in un prossimo futuro, ai farmaci biotecnologici con brevetto scaduto si affianchino i biosimilari, gli analoghi dei generici in campo biotecnologico. Su questa possibilità, tuttavia, gli specialisti invitano alla cautela e chiedono garanzie a tutela della sicurezza dei pazienti.

“Per la complessità del processo produttivo di un farmaco biotecnologico – ha spiegato Vittorio Andreucci – basta una minima variazione rispetto a un protocollo validato perché la copia generica sia diversa dal biotecnologico originale: sarà “biologicamente simile” (da cui la denominazione biosimilare) ma non identica.

Non si possono escludere rischi di sicurezza per i pazienti – ha aggiunto – tra i rischi ci sono possibili reazioni immunologiche ad un preparato che potrebbe, ad esempio, contenere “impurità”, per un procedimento non ottimale nella fase di purificazione del farmaco”.

L’Emea ha stabilito che un biosimilare può essere approvato solo sulla base di alcuni studi preclinici e clinici. Ma gli specialisti italiani chiedono un’ulteriore garanzia. “La decisione su quale farmaco usare all’interno di un ospedale o di un centro dialisi – ha affermato Andreucci – deve essere affidata esclusivamente al medico, che ha il diritto-dovere della scelta, dal momento che conosce le caratteristiche dei farmaci che utilizza. La scelta terapeutica deve sempre essere dettata dal criterio della sicurezza ed efficacia, non da quello di un possibile risparmio economico”.

 

 

da Salute Europa

14 dicembre 2006