Malattie cardiovascolari e diabete. Migliorare la cura è possibile

Insieme ai tumori, le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte in Italia. Ma tra i pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2 diventano – se possibile – un problema ancora più grande: in questi pazienti l’incidenza è infatti circa il doppio che nella popolazione generale, (dati ARNO – Società Italiana di Diabetologia (SID) in collaborazione con CINECA), e la mortalità dopo un primo infarto nelle persone con diabete è molto più alta che nella popolazione generale. In più questa classe di patologie è la principale causa anche di disabilità e ricovero ospedaliero tra questi pazienti. Ma migliorare è possibile. A dirlo è lo studio MIND IT (Multiple INtervention in type 2 Diabetes ITaly), pubblicato  sulla rivista Diabetes Care edita dalla American Diabetes Association. Uno studio multicentrico, nato da un’idea del gruppo di studio sull’arteriosclerosi della Società Italiana di Diabetologia, appena concluso, che ha confrontato una strategia di trattamento multifattoriale mirata alla correzione ottimale dell’iperglicemia e degli altri principali fattori di rischio cardiovascolare, nella pratica clinica abituale, nei pazienti con diabete di tipo 2 senza eventi cardiovascolari precedenti. L’obiettivo era di valutare la fattibilità di un trattamento esteso a tutti i fattori di rischio cardiovascolari e quantificare la sua efficacia nella pratica clinica quotidiana.

Un rischio cardiaco così elevato nei pazienti diabetici è dovuto in gran parte al fatto che i maggiori fattori di rischio cardiovascolare (aumento del colesterolo, elevati livelli di trigliceridi, bassi livelli di colesterolo HDL ed ipertensione arteriosa) sono più frequenti e hanno conseguenze più gravi nelle persone con diabete, rispetto a quelle senza diabete. Per questo è così importante fare prevenzione primaria tra le persone con diabete: tutte le linee guida  per la riduzione del rischio vascolare raccomandano, infatti, un controllo ottimale dei valori di glicemia e degli altri fattori di rischio cardiovascolari (in particolare della pressione arteriosa e dei livelli di colesterolo). “Purtroppo nella pratica clinica questi obiettivi vengono raggiunti solo in una minoranza di pazienti con diabete”, ha commentato Olga Vaccaro, docente di nutrizione presso l’Università Federico II di Napoli e componente del comitato scientifico del centro studi ricerca della SID e primo autore dello studio MIND IT. “Il gap di implementazione tra le linee guida e la pratica clinica non è un fenomeno limitato all’Italia e si spiega in larga parte con la complessità della cura della malattia diabetica che richiede interventi multifattoriali e l’adesione sia alla terapia farmacologica che ad uno stile di vita sano”.

Al MIND IT hanno partecipato nove centri diabetologici italiani (Bari,  Carrara, La Spezia, Roma, Pisa, Pavia, Perugia, Piacenza, Torino), che hanno reclutato 1461 pazienti di età compresa tra 50 e 70 anni, con diabete di tipo 2 diagnosticato da almeno 2 anni e con elevato rischio cardiovascolare definito dalla presenza di 2 o più fattori di rischio cardiovascolare. Cinque dei centri partecipanti sono stati casualmente selezionati per applicare il trattamento convenzionale di questi pazienti, mentre i restanti 4 venivano invitati ad agire secondo linee guida adottando un approccio multifattoriale. Questo approccio comprendeva un intervento sugli stili di vita (dieta ed esercizio fisico), sul controllo glicemico e sul profilo lipidico (non solo il colesterolo LDL ed i trigliceridi che hanno effetti favorenti l’arteriosclerosi ma anche le HDL con azione anti-aterogena) della pressione arteriosa e del peso corporeo (calo ponderale del 5%); inoltre prevedeva l’aggiunta di una terapia antiaggregante con aspirina a basse dosi.

Dopo 2 anni di follow up gli obiettivi terapeutici sono stati centrati in maniera significativamente maggiore nel gruppo in trattamento multifattoriale che tra i pazienti sottoposti al trattamento convenzionale: l’emoglobina glicata è risultata entro i limiti nel 54% dei pazienti del gruppo di trattamento ‘intensivo’, contro il 22% del gruppo sottoposto a trattamento convenzionale; gli obiettivi per il colesterolo LDL sono stati centrati nel 43% dei pazienti del gruppo ‘intensivo’ contro il 24% ‘convenzionale’; quelli per i trigliceridi nell’82% del gruppo intensivo contro il 64% del gruppo ‘convenzionale’ , quelli per il colesterolo HDL nel 95% dei pazienti del gruppo intensivo e nell’ 82% di quello ‘convenzionale’; infine gli obiettivi di pressione arteriosa sono stati raggiunti nel 23% dei pazienti del gruppo ‘intensivo’ contro il 6% del gruppo ‘convenzionale’. Il miglioramento del compenso glicemico nel gruppo sottoposto a trattamento intensivo non è stato inoltre accompagnato da un aumento del peso corporeo che anzi risultava ridotto grazie all’intervento sullo stile di vita. “Si tratta di ottimi risultati: e tuttavia – ha sottolineato Vaccaro – anche nel gruppo di trattamento ‘intensivo’ solo una parte dei  pazienti, ma non la totalità, raggiungeva gli obiettivi desiderati di controllo glicemico e degli altri fattori di rischio, a conferma della complessità del trattamento di una patologia cronica multifattoriale come il diabete”. Tutto ciò suggerisce che ci sono ampi margini di miglioramento per la prevenzione primaria degli eventi cardiovascolari nel diabete mellito di tipo 2 e che è possibile nella pratica clinica quotidiana applicare un protocollo di trattamento intensivo mirato a tutti i fattori di rischio cardiovascolare, oltre che al compenso glicemico.

Certamente ci sono delle difficoltà, legate in particolare a problemi organizzativi (spazi insufficienti, personale carente), ma anche all’inerzia terapeutica e alla scarsa compliance del paziente. Altri Paesi, alla ricerca di possibili soluzioni al problema, hanno introdotto ad esempio dei programmi di incentivazione finanziaria per i medici sulla base dei valori di alcuni indicatori di qualità per il trattamento del diabete. I risultati sono stati incoraggianti ma, secondo gli esperti, questa metodologia di lavoro non favorisce né la motivazione del paziente, né la continuità del trattamento.

 

 

da quotidianosanità.it