Focus su alcuni aspetti del diabete mellito

La prestigiosa rivista scientifica “The Lancet” ha recentemente dedicato numerosi articoli al diabete mellito,affrontando diversi aspetti (sociali e clinici) di questa malattia che può essere considerata il “prototipo” delle patologie croniche. Spesso chi ne soffre tende ad isolarsi, ritrovando solo negli ambienti sanitari quelle relazioni umane che sono indispensabili per affrontare l’evoluzione della patologia, mentre sarebbe opportuna una maggior condivisione del carico psicologico ed umano di tale condizione, specie se sono presenti complicanze croniche evolutive. Anzi, la positività derivante da una “condivisione” sociale e familiare può essere motivo di forza nell’affrontare la progressione della patologia, specie nelle fasi più rischiose per la qualità o per la durata di vita.

E’ bene che la medicina ricerchi soluzioni scientificamente e tecnologicamente innovative, ma medici e infermieri non devono dimenticare che il malato ha anche bisogno di una guida, di un supporto educativo, emotivo e psicologico. Bisogna considerare l’impegno necessario per un cambiamento dello stile di vita, la costante attenzione a corrette abitudini alimentari, tutte condizioni che possono ridurre la probabilità di comparsa o la rapidità dell’evoluzione di complicazioni croniche che spesso appaiono devastanti agli occhi del paziente. Alan M. Jacobson, del Joslin Diabetes Center di Boston, Massachusetts, USA, suggerisce 4 passaggi nell’affrontare la questione (Diabetes: finding “a clean well-lighted place”. The Lancet 2009, 373, 1746-47):

  • innanzitutto offrire al paziente un luogo confortevole ove possa sentirsi accolto (citando Hemingway: “un posto pulito e ben illuminato”); la scienza e la tecnica possono migliorare la medicina, ma nulla può sostituirsi all’importanza di un contatto personale e diretto per offrire supporto e cura al malato. Alcuni semplici indicatori (es.: appuntamenti mancati) sono stati correlati a peggiori esiti terapeutici, riflettendo la “distanza” nella relazione medico-paziente: stimolando un ruolo più attivo e incoraggiando il malato alla partecipazione personale nella gestione della sua malattia si possono ottenere miglioramenti nell’aderenza alla cura e negli esiti clinici;
  • secondo: l’abilità di fornire informazioni in modo comprensibile e emotivamente coinvolgente richiede nuove metodi di preparazione per gli stessi sanitari che, preferibilmente, dovrebbero essere organizzati in veri e propri “team”. Tra le nuove tecniche di comunicazione ricordiamo gli approcci cognitivo-comportamentali che facilitano la rimozione delle difficoltà per il paziente di “prendersi cura” della sua malattia;
  • terzo: aumentare le tradizionali potenzialità cliniche di diagnosi e terapia stimolando adeguati atteggiamenti comportamentali e psicologici, favorendo il coinvolgimento familiare e sociale, al fine di ridurre le barriere per un buon livello di cura personale: bisogna identificare e affrontare condizioni depressive latenti, molto frequenti tra i diabetici, che possono peggiorare l’efficacia delle terapie;
  • quarto: la suddivisione delle responsabilità è cruciale, considerando che il paziente vive la sua malattia “a tempo pieno”, mentre un sanitario vede un malato solo poche ore all’anno. La costituzione di “gruppi” di diabetici può aumentare la sensazione di essere curati e può fornire aiuto attraverso le esperienze di altri che hanno già affrontato gli stessi problemi. Questo processo di “condivisione” può proseguire anche grazie alle innovazioni tecnologiche: “chat” e “blog” on-line sono metodi per evitare l’isolamento e forniscono informazioni e speranze. 

Un’analisi dell’influenza delle innovazioni tecnologiche nel mondo dei diabetici viene svolta da un altro grande diabetologo americano, Richard Khan, a nome dell’American Diabetes Association (“Diabetes technology – now and in the future”. The Lancet 2009, 373, 1741-42): senza le innovazioni tecnologiche degli ultimi anni (nuovi farmaci, nuovi dispositivi terapeutici), non avremmo potuto curare il diabete come è oggi possibile, riuscendo ad affrontare il terribile rischio che questa malattia rappresenta. L’interesse per l’innovazione non sta diminuendo perché siamo consapevoli che, in tutto il mondo, molte persone diventeranno diabetiche nei prossimi anni;  questo si aggiunge al fatto che il diabete è una malattia cronica, quindi l’industria ha chiari interessi per sviluppare nuove proposte diagnostiche e terapeutiche. Ma nonostante le tecnologie disponibili la cura del diabete non è ancora a un livello pienamente soddisfacente, probabilmente perché la tecnologia non è ancora quella “giusta” o perché non è applicata efficacemente.

Prendendo ad esempio i nuovi farmaci per il diabete, il rapporto costo-beneficio non appare così evidente: a fronte di una spesa che è aumentata dell’87% dal 2001 al 2007 il relativo miglioramento dell’HbA1c risulta molto modesto; i “vecchi” farmaci (insulina, metformina, sulfoniluree) sono più potenti di quelli introdotti recentemente sul mercato e non ci sono ancora studi sufficientemente completi per valutarne i reali benefici, con il rischio di voler “provare” nuove molecole (magari sulla spinta dell’industria farmaceutica) tralasciando strategie ben sperimentate. Inoltre non dobbiamo dimenticare che “semplici” azioni riorganizzative possono ottenere simili riduzioni dell’HbA1c, fornendo un servizio di miglior qualità ai pazienti. Per esempio, l’attenzione all’adesione terapeutica potrebbe avere eccellenti risultati sul controllo glicemico: lo sviluppo di una nuova tecnologia in tal senso faciliterebbe la vita dei pazienti.

Anche per i “presidi” possiamo argomentare che non ci sono dati eclatanti sul reale rapporto costo-beneficio derivanti da studi clinici randomizzati e controllati: i microinfusori per insulina per bambini e adolescenti, ad esempio, non sono stati testati con studi a lungo termine in relazione a questo aspetto (riduzione dell’HbA1c, riduzione degli episodi di ipoglicemia, miglioramento psicosociale in relazione ai maggiori costi di gestione). Oltretutto bisogna considerare che eventuali benefici evidenziati in uno “studio scientifico” non sempre si riflettono nella pratica quotidiana, in cui l’attenzione e le motivazioni (di pazienti e medici) sono diversi rispetto ad una sperimentazione. Quindi, come suggerisce Khan, il campo dove c’è maggior necessità della tecnologia sembra essere proprio quello della comunicazione tra sanitari e pazienti, per poter influire sul comportamento e sugli effetti negativi del diabete nel tempo.

Concludendo, possiamo affermare che la telemedicina e la ICT (Information and Communication Technology) possono aiutare i pazienti a sentirsi sempre meno soli; l’efficacia di tali strumenti deve però essere validata sul campo, mediante studi randomizzati e controllati, coinvolgendo le istituzioni (sistema sanitario) per ridefinire anche il riconoscimento economico (adeguata tariffazione) di questo tipo di cure a favore di malati cronici, quali sono i diabetici.

Anche il New England Journal of Medicine dedica ampio spazio a uno studio (BARI 2D: Bypass Angioplasty Revascularization Investigation 2 Diabetes Study; N Engl J Med 2009;360:2503-15) che ha valutato il trattamento ottimale per pazienti diabetici sofferenti di cardiopatia ischemica stabile. In numerose (e prestigiose) università americane sono stati arruolati 2368 pazienti che dovevano essere sottoposti a rivascolarizzazione e terapia medica intensiva oppure a sola terapia medica intensiva (sia con insulina, sia con insulino-sensibilizzanti: metformina, tiazolidinedioni). Gli end-point primari erano la mortalità e l’insieme di mortalità, infarto miocardico o ictus (eventi cardiovascolari maggiori). La randomizzazione è stata fatta in relazione alla più appropriata scelta di rivascolarizzazione (trattamento percutaneo: PCI; o by-pass coronarico: CABG). Dopo 5 anni i tassi di sopravvivenza non sono risultati statisticamente differenti tra i gruppi sottoposti a rivascolarizzazione e coloro sottoposti a trattamento medico intensivo (gruppo insulino-trattato e gruppo con farmaci insulino-sensibilizzanti). Anche la probabilità di rimanere liberi da eventi cardiovascolari maggiori non differiva statisticamente tra i vari gruppi. In coloro sottoposti a PCI non si è rilevata alcuna differenza significativa tra rivascolarizzazione e trattamento medico intensivo. Nello strato di coloro sottoposti a by-pass, invece, si sono osservati meno eventi cardiovascolari nel gruppo dei rivascolarizzati (22.4%) rispetto a coloro posti in terapia medica intensiva (30.5%; p=0.01; p=0.002 per interazione tra strato e gruppo). Gli eventi avversi sono risultati simili nei vari gruppi, eccetto le ipoglicemie. Quelle gravi, per esempio, sono state più frequenti nei pazienti insulino-trattati (9.2%) rispetto a coloro in terapia insulino-sensibilizzante (5.9%; p=0.003). Osservando le caratteristiche dei pazienti dopo 3 anni di follow-up, peraltro, possiamo notare come i pazienti insulinotrattati mostrino un peggioramento di alcuni fattori di rischio: hanno valori di HbA1c maggiori rispetto a coloro in terapia insulino-sensibilizzante (7.5±1.4 vs 7.0±1.2; p<0.001), hanno un minor livello di HDL-Colesterolo (40±11 vs  42±12; p<0.001), risultano più obesi (BMI 32.5±6.2 vs 31.7±6.3; p=0.003). Ciò significa che il trattamento insulinico non solo non è riuscito ad ottenere risultati ottimali di controllo glicemico (il target era fissato a HbA1c <7,0%), lipemico e ponderale, ma non ha neppur permesso di raggiungere gli obiettivi terapeutici prefissati. Come ricordato, poi, i soggetti in trattamento insulinico intensivo hanno sofferto più spesso di episodi di ipoglicemia, mentre i pazienti in terapia insulino-sensibilizzante hanno presentato più frequentemente edemi (p=0.02) mentre non si sono evidenziate differenze statisticamente significative per quanto riguarda l’insorgenza di scompenso cardiaco e di fratture ossee (condizioni di particolare interesse per quanto riguarda la sicurezza d’uso dei tiazolidinedioni).
Nell’Editoriale dedicato all’argomento (WE Boden, DP Taggart “Diabetes with Coronary Disease -A Moving Target amid Evolving Therapies?” N Engl J Med 2009;360:2570-72), viene sottolineato che la terapia insulino-sensibilizzante ha offerto risultati migliori rispetto al trattamento insulinico (limitatamente agli end-point secondari) e che, rispetto a una terapia medica intensiva, i diabetici sottoposti a CABG (ma non a PCI) presentano minori eventi cardiovascolari maggiori (specialmente infarto miocardico non fatale). Con tutte le limitazioni nell’interpretazione degli end point secondari di uno studio che non ha rilevato differenze negli end point primari, si può osservare come il BARI 2D confermi i principali risultati di un altro importante trial (COURAGE: Clinical Outcome Utilizing Revascularization and Aggressive Drug Evaluation; Boden WE, O’Rourke RA, Teo KK, et al. “Optimal medical therapy with or without PCI for stable coronary disease.” N Engl J Med 2007;356:1503-16.) in cui una strategia di iniziale PCI non apportava ulteriori benefici rispetto alla terapia medica intensiva in diabetici coronaropatici stabili. Però, per coloro che rimangono sintomatici nonostante il trattamento medico intensivo o che hanno ischemia residua o coronaropatia estesa, una rivascolarizzazione con CABG risulta essere la scelta più appropriata. La superiorità cardioprotettiva del by-pass è legata al fatto che viene trattata non solo la stenosi principale (come fa la PCI), ma agisce preventivamente sull’evoluzione di altre possibili lesioni. Mostrando i benefici della terapia insulino-sensibilizzante rispetto al trattamento insulinico, lo studio BARI 2D sottolinea il fatto che, accanto ai miglioramenti tecnici delle rivascolarizzazioni, anche la terapia medica procede, determinando la necessità di modificare i target terapeutici da raggiungere: una buona cura medica, di fatto, può offrire adeguate garanzie a diabetici coronaropatici, specie per coloro con malattia coronarica meno estesa. Quando, però, si deve procedere con una rivascolarizzazione è preferibile ricorrere a CABG, almeno fino a che ulteriori studi indichino diversamente, non dimenticando di offrire al paziente (e discutere con lui) tutte le scelte terapeutiche disponibili.

 

Antonio C. Bossi
Direttore, Unità operativa “Malattie metaboliche e Diabetologia”
Azienda ospedaliera “Ospedale Treviglio-Caravaggio” (BG)
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