Diabete mellito: questione di screening?

Si torna a discutere sull’opportunità di realizzare campagne di screening a livello di popolazione volte a diagnosticare precocemente il diabete (di tipo 2) negli adulti e a ridurre gli esiti negativi associati alla sua progressione. Un editoriale del Lancet e un post sul blog di Politica sanitaria Salute Internazionale riaprono la questione.

Richard Kahn dell’American Diabetes Association di Alexandria e gli altri coautori prendono in esame otto strategie di screening, tutte basate sul test glicemico (≥7mmol/L a digiuno dopo risveglio notturno), ma differenti per età di avvio (tra i 30 e i 60 anni), cadenza dei controlli (da semestrale a quinquennale) e concomitanza con screening per altre patologie; come termine di confronto è stata scelta la strategia minima, caratterizzata da assenza di controlli. La valutazione di tipo costo-efficacia ha richiesto l’utilizzo di un modello matematico denominato “Archimede”, già sperimentato e validato nell’ambito di precedenti studi sul diabete, anche se non in riferimento agli screening. Si tratta di un modello di simulazione del profilo reale di una popolazione, in grado di elaborare dati sulla fisiologia umana, sui comportamenti e gli stili di vita, sugli interventi sanitari e su diversi altri fattori associati all’insorgenza e al decorso della malattia diabetica. Grazie ad Archimede, i ricercatori hanno ricostruito una popolazione simulata di 325mila trentenni non diabetici, con caratteristiche simili a quelle dei soggetti inclusi nella National Health and Nutrition Examination Survey 1999-2004 (campione rappresentativo della popolazione statunitense). A tale popolazione sono state applicate le nove strategie di screening (compresa l’opzione no-screening). La simulazione ha coperto un arco temporale di 50 anni di follow-up; gli esiti di salute considerati sono stati la mortalità, l’incidenza di eventi cardiovascolari (infarto del miocardio e ictus cerebrale) e di complicanze microvascolari (amputazione del piede, retinopatia e nefropatia) e soprattutto i QALYs (Quality-adjusted life-years), ossia gli anni di vita guadagnati a seguito delle diverse opzioni di screening, aggiustati per la qualità della vita. Le strategie simulate si sono dimostrate tutte efficaci, se confrontate con l’assenza di controlli, nel prevenire diversi esiti negativi (infarto, cecità e amputazioni, ma non ictus e nefropatie) e nel migliorare significativamente l’aspettativa di vita: da un minimo di 93 a un massimo di 194 QALYs guadagnati per 1.000 persone nei 50 anni di follow-up. Quando nella valutazione entrano anche i costi, le strategie maggiormente costo-efficaci – intorno a 10.500 dollari o meno per singolo QALY guadagnato – risultano essere quelle con avvio dei controlli glicemici tra i 30 e i 45 anni e ripetizione ogni 3-5 anni; e quelle svolte in concomitanza con screening per altre patologie, come ipertensione o ipercolesterolemia.

Conclusioni applicabili anche in Italia? Spiega Giovanni Baglio dell’Istituto Superiore di Sanità: “In sanità pubblica gli interventi si trovano spesso combinati ad altri interventi, i test diagnostici ad altri test diagnostici; e gli itinerari di prevenzione e di cura sono tra loro intimamente connessi e difficilmente pensabili, oltre che valutabili, isolatamente. Questa visione a reticolo, questa trama fitta di azioni e retroazioni che gli esperti definiscono “complessità”, dovrebbe potersi tradurre anche per il diabete in strategie multiformi, in grado di coniugare istanze e obiettivi diversificati: dalla lotta alla sedentarietà e ai disordini alimentari, alla promozione di comportamenti e stili di vita favorenti una buona salute; dai programmi di diagnosi precoce, allo sviluppo di reti assistenziali per la presa in carico delle persone malate. Strategie queste, in cui gli screening possono rappresentare uno snodo importante, ma non esclusivo, per la promozione della salute collettiva”.

Fonte: Baglio G. Diabete mellito: la parola agli screening.

Salute Internazionale