Trapianto di isole pancreatiche: potenzialità e criticità

In base ai risultati di un recente studio FDA, l’infusione di betacellule eterologhe è la risposta ideale per i pazienti con diabete di tipo 1 instabile, che non riescono a trarre sufficienti benefici dagli approcci medici disponibili. Ma la fattibilità della procedura si scontra con seri limiti clinico-pratici, a partire dalla scarsità di donatori di tessuto pancreatico e dai costi dell’intervento.

È tecnicamente fattibile, sufficientemente sicuro e permette di ottenere buoni esiti clinici a medio-lungo termine in pazienti diabetici particolarmente critici, che non sarebbero riusciti a mantenere un adeguato compenso metabolico con le terapie mediche disponibili. Sulla base dei risultati ottenuti dagli esperti della Food and Drug Administration (FDA) nell’ambito dell’analisi retrospettiva effettuata sui dati del Collaborative Islet Transplant Registry (CITR) statunitense, il trapianto allogenico di cellule delle isole pancreatiche sembra rappresentare una valida alternativa terapeutica per chi soffre di diabete di tipo 1, dimostrandosi in grado di evitare alla maggioranza dei pazienti di andare incontro a episodi di ipoglicemia severa e di ottenere un buon controllo della glicemia, spesso anche senza terapia insulinica, per 1-3 anni (Tiwaria JL et al. American Journal of Transplantation, 2012). Mentre si studiano protocolli per trial di fase III capaci di stabilire in modo definitivo potenzialità e limiti clinici della procedura e l’opportunità di introdurla tra i trattamenti di routine per il diabete di tipo 1 instabile, emergono, tuttavia, anche alcune importanti criticità che rendono l’intervento non sempre consigliabile (per esempio, la necessità di somministrare la terapia immunosoppressiva post-trapianto nei bambini) e, in molti casi, neppure eseguibile a causa dell’insufficienza di donatori e, quindi, di materia prima di qualità adeguata.

L’analisi del Collaborative Islet Transplant Registry (CITR)

Per valutare gli effetti a medio-lungo termine del trapianto allogenico di cellule delle isole pancreatiche, il gruppo guidato da Bruce Shneider, direttore dell’Ufficio per la Terapia cellulare, tissutale e genica del Center for Biologic Evaluation and Research della FDA(Rochville, Stati Uniti), ha analizzato retrospettivamente i dati di 347 pazienti con diabete di tipo 1 che avevano ricevuto almeno un’infusione di betacellule tra il 1999 e il 2008 (per un totale di 637 infusioni), inclusi nel CITR. Una popolazione che corrisponde a circa l’81% di tutti i trapianti allogenici di isole pancreatiche effettuati in Nord America nel periodo considerato.

In base ai criteri previsti dalle Linee guida FDA, per essere candidati al trattamento, i pazienti devono essere affetti da diabete di tipo 1 da almeno cinque anni, avere un’età compresa tra 18 e 65 anni, presentare un diabete instabile difficilmente controllabile con terapia medica e alterazioni del sistema nervoso autonomo tali da impedire di percepire tempestivamente l’instaurarsi di ipoglicemia, nonché aver sperimentato ripetuti episodi di ipoglicemia severa (con i conseguenti elevati rischi per la sopravvivenza).

Come suggerito dalle stesse Linee guida FDA, l’end point primario utilizzato per stabilire il livello di efficacia del trapianto allogenico di cellule delle isole pancreatiche era composto dall’assenza di episodi di ipoglicemia severa e dal mantenimento di una quota di emoglobina glicata (HbA1c) ≤ 6,5% dopo dodici mesi dalla prima infusione o da ogni infusione successiva di betacellule, in assenza di terapia insulinica o con terapia insulinica ridotta o semplificata rispetto allo schema necessario prima del trapianto. Come end point secondario veniva considerata la sola assenza di episodi di ipoglicemia severa nell’arco dei dodici mesi dalla prima o dall’ultima infusione di betacellule. Nell’ambito dell’analisi è stato, inoltre, monitorato il tempo al fallimento del trapianto.

La scelta di fissare a un anno il limite di follow up per evidenziare i benefici clinici e distinguere, quindi, i pazienti responder dai non responder, è dipesa dalla considerazione che tali benefici possono instaurarsi lentamente (3-4 mesi nel caso della variazione della % di HbA1c), ma che, d’altronde, se il paziente non ottiene miglioramenti del metabolismo glucidico nei primi sei mesi dal trapianto, è da escludere che li possa ottenere in seguito.

I benefici osservati nei primi tre anni

L’analisi dei dati CITR ha evidenziato che il trapianto allogenico di cellule delle isole pancreatiche si associa a sostanziali benefici per la maggioranza dei pazienti per tutti gli end point considerati. In particolare, a un anno dall’infusione di betacellule, il 51% dei pazienti sottoposti a un solo trattamento, il 61% di quelli sottoposti a due trapianti e il 64% di coloro che ne avevano ricevuti tre non aveva sperimentato alcun episodio di ipoglicemia e riusciva a mantenere valori di HbA1c ≤ 6,5%. Considerando la popolazione complessiva, la quota di pazienti che soddisfacevano l’end point composto primario a un anno era pari al 59%. 

L’analisi dell’andamento della risposta al trapianto effettuata con il test Cochrane-Armitage ha evidenziato una significativa tendenza verso esiti clinici migliori in funzione del maggior numero di infusioni di betacellule ricevute (p=0,07). Considerando la popolazione complessiva, inoltre, è stato osservato che il 69% dei responder a un anno continuava a soddisfare l’end point composto primario al termine del secondo anno di follow up, e il 54% anche dopo il terzo. Rispetto alla persistenza della risposta non sono state evidenziate differenze statisticamente significative in relazione al numero di infusioni di betacellule ricevute (p<0,63).

Esaminando la sola riduzione dei valori di HbA1c al di sotto del 6,5%, i ricercatori hanno rilevato percentuali di successo a un anno pari al 53%, 65% e 64% in pazienti sottoposti rispettivamente a uno, due o tre trapianti di cellule delle isole pancreatiche, corrispondenti a un tasso di successo globale del 61%. Anche in questo caso, è stato verificato un trend positivo per l’andamento degli esiti clinici in funzione del maggior numero di infusioni ricevute (p=0,08), ma nessuna differenza significativa in termini di persistenza della risposta favorevole ottenuta (p<0,90). Dei pazienti che presentavano valori di HbA1c ≤6,5% dopo dodici mesi, il 73% continuava a soddisfare l’end point dopo due anni dal trapianto e il 61% anche dopo il terzo anno.

Concentrandosi sulla sola protezione da episodi ipoglicemici, l’end point a un anno è stato soddisfatto dall’81%, dal 91% e dal 98% dei pazienti che avevano ricevuto rispettivamente una, due o tre infusioni di betacellule, per un tasso di successo del trattamento complessivo pari al 91%. Di nuovo, il test Cochrane-Armitage ha evidenziato una marcata tendenza verso esiti clinici migliori in funzione del maggior numero di trapianti ricevuti (p=0,0004). Il 91% dei responder a dodici mesi, restava libero da episodi ipoglicemici dopo il secondo anno e l’85% anche dopo il terzo.

Sulla base dei dati CITR, le betacellule trapiantate hanno dimostrato di mantenere una buona vitalità nella maggior parte dei riceventi e, in particolare, in chi era stato sottoposto a un maggior numero di infusioni. In chi aveva ricevuto una sola infusione, le percentuali di sopravvivenza del trapianto a uno, due e tre anni, sono risultate rispettivamente pari al 66%, 56% e 51%, che salivano all’85%, 72% e 66% in chi era stato sottoposto a due trapianti e all’87%, 69% e 62% in chi ne aveva ricevuti tre.

Tra efficacia dimostrata e pratica clinica 

Ancorché da approfondire (per esempio, valutandone l’impatto sulle complicanze micro e macrovascolari) e da estendere su periodi di follow up più prolungati (in considerazione della cronicità della malattia), i vantaggi clinici osservati nei pazienti trattati nell’arco di un decennio con trapianto allogenico di cellule delle isole pancreatiche indurrebbero a promuovere fortemente questa opportunità terapeutica almeno nei pazienti con diabete di tipo 1 difficilmente controllabile con terapia insulinica e stile di vita. 

Oltre ai costi dell’intervento, tuttavia, bisogna considerare almeno due aspetti tutt’altro che trascurabili in una logica di fattibilità del trapianto allogenico nella pratica clinica. Innanzitutto, le controindicazioni specifiche della procedura o delle terapie immunosoppressive necessarie dopo la sua esecuzione, che potrebbero sconsigliarne l’esecuzione in una quota abbastanza ampia di pazienti (per esempio, nei più giovani). A riguardo, andrebbe peraltro meglio precisato l’impatto dell’immunosoppressione sulla qualità di vita dei pazienti e sui costi complessivi del trattamento rispetto a quelli associati alla terapia insulinica, complessivamente ben tollerata ed economica, ancorché non sempre pienamente soddisfacente nell’esito.

Va, poi, tenuto conto di un importante limite intrinseco all’esecuzione del trapianto: vale a dire, la ridotta disponibilità di materiale biologico adeguato, legata alla scarsità di donatori di tessuto pancreatico post mortem e dalla bassa efficienza della procedura (per rendere indipendente da insulina a lungo termine un singolo paziente servono in media 2-4 donatori). Negli Stati Uniti, il numero medio di donatori di betacellule è dell’ordine di circa 1.000 all’anno. In Italia, i donatori di pancreas sono approssimativamente 200 all’anno, contro una popolazione di pazienti affetti da diabete di tipo 1 che si aggira intorno alle 300mila persone (stima conservativa del 10% per il diabete di tipo 1 sul totale di 3 milioni di diabetici, pari al 4,9% popolazione italiana, ISTAT 2011).

Al di là della promozione della donazione di organi e tessuti, di cui gioverebbero anche molti altri contesti clinici, un’opportunità per superare entrambe le criticità (scarsità di materiale biologico e necessità della terapia immunosoppressiva) potrebbe venire dal ricorso all’auto-trapianto di cellule delle isole pancreatiche geneticamente modificate o dall’impiego di betacellule di origine animale oppure di cellule staminali embrionali incapsulate. Un’ulteriore strategia in grado di estendere l’esecuzione del trapianto è legata alla possibilità di ottenere da un singolo donatore quantità di cellule delle isole pancreatiche sufficienti a rendere il ricevente indipendente dalla terapia con insulina a lungo termine. 

Tutte queste opzioni, attualmente limitate a contesti di ricerca per lo più nell’ambito di studi di fase I o II, comporterebbero anche il vantaggio di limitare l’esposizione del paziente a serie di antigeni HLA differenti, riducendo il rischio di una sensibilizzazione immunitaria che potrebbe determinare il fallimento precoce del trapianto, la necessità di una terapia immunosoppressiva non tollerabile dal paziente, nonché l’impossibilità di effettuare ulteriori trapianti potenzialmente necessari nei pazienti con diabete di tipo 1 (per esempio, di rene).


Tipo di studio
Analisi retrospettiva dei dati inclusi nel Collaborative Islet Transplant Registry (CITR).

Citazione completa
Tiwaria JL, Schneider B, Barton F and Anderson SA. Islet Cell Transplantation in Type 1 Diabetes:
An Analysis of Efficacy Outcomes and Considerations for Trial Designs. American Journal of Transplantation, 2012; 12:1898-1907. doi:10.1111/j.1600-6143.2012.04038.x (http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1600-6143.2012.04038.x/abstract;jsessionid=C97EE7CC3CFF045F4336C3CA528901FA.d04t02)

 

 

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