Il diabete non si previene coi farmaci

Lapidari. I due studi appena usciti sul New England Journal of Medicine non lasciano adito a interpretazioni dubbie: dare farmaci a chi ha una ridotta tolleranza al glucosio, ovvero si trova nell’anticamera del diabete, non serve a evitare che il metabolismo degli zuccheri vada in tilt e compaia un vero e proprio diabete. L’unica speranza per scongiurarlo è la via più difficile, che passa dalle modifiche dello stile di vita: mangiar meglio e muoversi di più. Ma pochi, pochissimi seguono questa strada.

STUDI AMPI – Le due ricerche uscite sulla prestigiosa rivista statunitense, entrambe «costole» della stessa sperimentazione che ha coinvolto in tutto oltre 9 mila persone di 40 Paesi, mettono una croce sopra alle speranze di chi pensava che bastasse una pillola ad allontanare il rischio di diabete in chi ha già i primi segni di qualche problema nel metabolismo degli zuccheri, perché ha la glicemia un po’ alta e non risponde più bene all’insulina: non sono migliori del placebo né il valsartan, un antiipertensivo , né la nateglinide, che agisce migliorando la secrezione di insulina. Il numero delle persone che dalla condizione di pre-diabete sono passate a un diabete conclamato, in altri termini, prendendo una pillola di placebo o uno dei due farmaci è risultato di fatto uguale. Nessuno dei due, per giunta, ha prevenuto le complicazioni più temute del diabete, ovvero gli ictus e gli infarti. Un fallimento che non stupisce Paolo Cavallo Perin, presidente della Società Italiana di Diabetologia , che osserva: «Sappiamo che solo gli ACE-inibitori hanno un lieve effetto positivo sull’insulino-resistenza, ma non ha senso prescriverli se l’unico problema è la ridotta tolleranza al glucosio. Chi è iperteso, e già solo per questo ha un rischio raddoppiato rispetto alla norma di sviluppare il diabete, può trarne un piccolo vantaggio; in tutti gli altri non c’è motivo di dare né questi né altri farmaci per prevenire il diabete. L’unico modo per riuscirci è modificare lo stile di vita, ma pochi lo fanno».

SCARSA CONSAPEVOLEZZA – Cavallo Perin ricorda che ad aprile è prevista l’uscita di una ricerca, sull’American Journal of Preventive Medicine, che dimostra come circa il 30 per cento della popolazione sia nelle condizioni di pre-diabete. «Oltre il 90 per cento però non lo sa: una stima verosimile anche nel nostro Paese», dice il diabetologo. Lo studio ha il “bollino di garanzia” dei Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta e del National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Disease statunitense, per cui la “forza” dei dati non è affatto da sottovalutare. Lo studio, condotto su un campione rappresentativo di 1.400 americani, dimostra che uno su tre ha una ridotta tolleranza al glucosio, ma solo il 7 per cento ne è consapevole. E meno della metà dei pre-diabetici si sono sottoposti all’esame della glicemia nei tre anni precedenti allo studio. Che, per di più, rivela come i soggetti con pre-diabete siano spesso ad altissimo rischio perché hanno anche altri fattori di pericolo, dal sovrappeso al grasso addominale, dal colesterolo alto all’ipertensione.

STILE DI VITA – Il primo passo, quindi, è farsi controllare la glicemia regolarmente, a maggior ragione se c’è una familiarità per il diabete o se sappiamo di avere altri fattori di rischio. Secondo passo, cambiare lo stile di vita: «Perdere appena il 5 per cento del peso fa già una grandissima differenza nel ridurre la probabilità di ammalarsi di diabete», ha detto John McMurray dell’università di Glasgow, uno fra gli autori degli studi usciti sul New England Journal of Medicine. Il problema è che si tratta della strada più complicata, secondo molti perché è proprio la vita di oggi a spingerci sulla china delle cattive abitudini. Sarebbe meglio tornare a vivere come negli anni ’60, come auspicano gli autori di una recente ricerca inglese che ha messo a confronto la vita di oggi con quella di allora, quando la popolazione era mediamente più magra (nel Regno Unito il tasso di obesità si aggirava intorno all’1-2 per cento contro il 26 per cento di oggi). Questo nonostante le palestre fossero meno gremite di adesso e i cibi grassi fossero amati quanto oggi.

ANNI ’60 – Però allora nelle case d’oltremanica c’erano dieci milioni di televisioni, mentre oggi si vola verso i 74 milioni di apparecchi previsti per il 2020; negli anni ’60 solo tre famiglie su dieci avevano l’auto, oggi ce l’hanno 7 su dieci (e c’è da scommetterci che in Italia sono pure di più); allora non era di moda il fast food e si camminava di più (il 75 per cento della popolazione, nel 1967, diceva di camminare almeno mezz’ora ogni giorno, oggi solo il 42 per cento lo fa). E pure le pulizie di casa, a cui si dedicava il doppio del tempo rispetto a oggi, aiutavano a snellire. Nei “favolosi anni ’60”, insomma, non c’era ancora l’epidemia di diabete e si era più in forma perché ci si muoveva di più: «La routine di tutti i giorni era più “attiva” – spiegano gli autori –. Forse, poi, chi era sovrappeso si sentiva una mosca bianca assai di più rispetto a oggi, e cercava di dimagrire con maggior impegno: solo il 7 per cento, negli anni’60, diceva di aver fallito nel perdere peso. Oggi getta la spugna il 43 per cento di chi è in sovrappeso».

 

di Elena Meli

da Corriere.it Salute