Diabete punto nel vivo

Marcatori predittivi della malattia e tecnologie per migliorare e rendere innocua la misurazione di glicemia, trapianti di isole pancreatiche e approcci di rigenerazione con le staminali sono tra le prospettive più interessanti nella lotta contro il diabete, malattia che oggi affligge più di 300 milioni di persone nel mondo (il 10% è costituito da diabetici di tipo 1) e si prevede ne colpirà fino a 435 milioni nel 2030.

Solamente negli Stati Uniti si spendono 210 miliardi di dollari per il diabete, cifra che nel 1980 copriva l’intero costo della sanità.

Domenica 14 novembre torna l’appuntamento con la giornata mondiale del diabete che coinvolge 160 paesi, promossa dall’International diabetes federation e organizzata in Italia da Diabete Italia. In 500 piazze saranno allestiti presidi dove si potrà ricevere materiale informativo, consulenza medica ed eseguire l’esame della glicemia. Sarà inoltre possibile, rispondendo a un questionario, scoprire la percentuale di rischio diabete da qui a 10 anni. Una delle sfide della ricerca è proprio quella di predire l’insorgenza della diabete e, in un futuro, fermarne l’evoluzione. Uno degli approcci più interessanti per quanto riguarda il tipo 1, ossia a esordio giovanile, è racchiuso nella possibilità di prevenirne l’insorgenza. «Sappiamo che esiste un periodo di latenza tra la comparsa dell’autoimmunità, valutabile mediante marcatori presenti nel sangue, e l’esordio della malattia clinica. In questa fase si concentrano gli sforzi per cercare di prevenirne lo sviluppo», ha commentato Lorenzo Piemonti, co-direttore del programma di ricerca Trapianto di isole pancreatiche del San Raffaele Diabetes research institute di Milano, che fa parte di una rete mondiale, «e sono allo studio trattamenti che modificano l’assetto immunologico dei pazienti al fine di fermare la distruzione delle cellule che rilasciano l’insulina». A livello mondiale sono stati già conclusi 12 trial clinici e attualmente altri 9 sono attivi, ma i risultati non sono ancora soddisfacenti. Recentemente un’équipe brasiliana ha avviato uno studio innovativo, molto discusso però in ambito scientifico, su 23 soggetti che si basa su di un autotrapianto di midollo osseo all’esordio del diabete. «La sperimentazione ha mostrato che è stato possibile revertire la malattia in alcuni pazienti, ma gli effetti collaterali possono essere non marginali», ha spiegato Piemonti.

La tecnologia migliora il monitoraggio. Una delle prospettive più concrete per i malati di diabete di tipo 1 è la possibilità di misurare in un prossimo futuro la glicemia senza pungere il dito. Sono allo studio tecnologie che potrebbero permettere di poggiare semplicemente la falange sotto una luce per misurare la quantità di zuccheri presente nel sangue.

Per giungere invece alla sconfitta della malattia, tra le sfide più ambiziose di questi anni c’è la terapia rigenerativa, che si basa sull’uso delle cellule staminali. «Sono allo studio approcci nuovi e potenzialmente efficaci, ma si tratta di sforzi spesso non sufficientemente sostenuti», ha spiegato Camillo Ricordi, direttore del Diabetes research institute di Miami e presidente del cda dell’Ismett di Palermo, «nel 2008 sono stati spesi 52 miliardi di dollari per sviluppare 16 nuovi farmaci, ma la vera sfida non sono le terapie farmacologiche di mantenimento bensì quelle cellulari, che puntano alla cura della malattia». Attualmente il centro di Miami coordina trial internazionali su oltre 150 pazienti in cui si utilizzano di cellule del midollo autologhe in casi di diabete di tipo 2, in cui l’assenza di immunità evita la necessità di assumere farmaci anti-rigetto. I dati iniziali sono incoraggianti e mostrano un positivo effetto metabolico e di produzione di insulina. «L’obiettivo è quello di identificare quali sono i meccanismi che promuovono la rigenerazione per poi trasferire il concetto sui pazienti di tipo 1», ha aggiunto Ricordi, «tra le zone più promettenti per l’estrazione di cellule figurano il cordone ombelicale e il tessuto adiposo, ma in generale un approccio valido sembra quello di riprogrammare le cellule così che non vengano riconosciute dal sistema immunitario, evitando quindi l’assunzione di farmaci immunosoppressivi». Finora la sorgente che si è dimostrata più adatta a dar vita alle beta cellule è quella delle cellule staminali embrionali, ma si è scoperto che anche quelle adulte possono essere riprogrammate così da permetter loro di riacquisire la pluripotenza che avevano a livello embrionale e ovviare a limitazioni e problemi etici. «È necessario però verificare eventuali problemi di sicurezza, perché la riprogrammazione cellulare può dar vita a processi di trasformazione neoplastica», ha precisato Piemonti. Un approccio che sta dando buoni risultati, almeno in vitro, è quello affrontato da un gruppo di ricercatori coordinati da Carla Giordano, professore associato di endocrinologia all’Università di Palermo e membro della Società italiana di diabetologia presieduta da Gabriele Riccardi, che prevede l’utilizzo di cellule derivate dal limbus, una zona dell’occhio situata tra congiuntiva e cornea, «Le staminali di questa area sono immunogeniche, quindi si potrebbe sperare in un basso rischio di rigetto nel caso di trapianto», ha commentato Giordano, «prima va programmata una ricerca sull’animale e poi sull’uomo per dimostrare che, inoculate nel paziente, queste cellule non creino problemi di altro tipo e siano in grado di rispondere alla richiesta metabolica con un rilascio di insulina solo quando serve».

Il trapianto di isole pancreatiche. Le strategie di terapia cellulare per il trattamento del diabete si basano per ora sull’estrazione e purificazione delle isole di Langerhans del pancreas, grappoli di cellule endocrine che contengono cellule produttrici di insulina. «Questi trapianti sono sperimentali e sono oggetto di trial approvati dall’Fda», ha commentato Ricordi, «ma sono limitati ai casi più gravi perché richiedono un trattamento con farmaci anti-rigetto che impongono rischi ed effetti collaterali. Ecco perché la sfida più interessante riguarda l’eliminazione della necessità di utilizzare terapie di immunosoppressione invasive, affidandosi a strategie per indurre la tolleranza immunitaria, a nuove tecnologie con nanocapsule che creano una pellicola attorno alle cellule per proteggerle dall’attacco immunitario o a terapie anti-rigetto locali, dove si impiantano cellule produttrici di insulina senza creare danno al sistema intero». È attualmente in fase di verifica presso il centro Dri del San Raffaele un approccio che prevede il trapianto di isole direttamente nel midollo (e non nel fegato), al fine di ottenere una risposta migliore e durevole nel tempo. Per validare questo approccio sono stati coinvolti alcuni pazienti, ma il periodo di osservazione è ancora in corso. Un altro tentativo è quello di sviluppare farmaci che agiscono sulla regolazione dell’infiammazione, così da verificare se con un trapianto tradizionale di isole nel fegato, inibendo alcuni globuli bianchi che favoriscono la risposta immunologica, si possa ottenere una migliore sopravvivenza del trapianto. Va detto che quand’anche sarà eliminata la necessità di utilizzo di farmaci anti-rigetto, il trapianto di isole presenterà comunque limitazioni relative alla disponibilità di donazioni, che non è sufficiente a soddisfare la richiesta, ma resta il prototipo di terapia cellulare e la base per future terapie con fonti illimitate di cellule che producono insulina. È stato di recente pubblicato uno studio sulla rivista Diabetologia, organo ufficiale dell’European association for the study of diabetes, in cui una popolazione di diabetici di tipo 1 con una storia di malattia di 20 anni è stata trattata con una monoterapia di immunosoppressione non molto aggressiva. «I risultati confermano la tesi che esiste una ricomparsa di funzione cellulare», ha precisato Piemonti. Ora si sta valutando la possibilità di un trial pilota per verificare se la funzionalità recuperata sia sufficiente e di lunga durata anche una volta interrotta la terapia. Nel diabete di tipo 2, invece, uno degli aspetti che coinvolge i gruppi di ricerca di tutto il mondo è la prevenzione delle complicanze a livello cardiovascolare, ma anche oncologico. «Uno degli aspetti emersi da studi recenti è l’incidenza più elevata di tumori nei pazienti diabetici o insulino-resistenti. L’insulina non regolata sembrerebbe quindi predisporre alla malattia neoplasica», ha concluso Piemonti. «grazie a queste evidenze si sta tentando un approccio nuovo, ossia provare a utilizzare farmaci per il diabete 2 in campo oncologico, così da verificare se agiscono come controllo sulla progressione del tumore».

 

 

di Cristina Cimato

da Milano Finanza Salute Personal

del 13/11/2010