Diabete, a ciascuno la sua cura

La fine del diabete? Vicina non è, se si snocciolano un po’ di numeri: ne soffre, tra la forma autoimmune e quella metabolica, il 9% della popolazione mondiale, pari a 346 milioni di persone. E le previsioni, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, non sono poi così radiose: da qui a 10 anni il tasso di decessi rischia di aumentare fino al 50%. Praticamente, una pandemia.

Dunque ci sarebbe quasi da fasciarsi la testa, se la ricerca dell’ultimo ventennio non avesse lasciato sul campo interessanti prospettive. Dal trapianto d’organo a quello più selettivo delle isole pancreatiche, per la cura del diabete di tipo I, fino alle soluzioni prospettate dalla chirurgia bariatrica, opzione valida per la cura del disturbo metabolico di cui soffre oltre il 91% dei diabetici, grazie a cui si può spesso fare a meno della terapia farmacologica. «Non dobbiamo pensare a una cura unica in grado di far dimenticare il diabete – spiega Stefano Del Prato, ordinario di endocrinologia all’Università di Pisa e presidente della Società Italiana di Diabetologia (Sid) -. Nell’ambito delle due tipologie più note le malattie sono estremamente eterogenee. Oggi abbiamo il compito di individuare terapie personalizzate per offrire una soluzione a tutti i pazienti».

La 49esima edizione del congresso della «European Association for the Study of Diabetes», svoltosi a Barcellona, ha rappresentato l’occasione utile per mettere assieme i tasselli della ricerca, nella speranza di trovare le prime vie di fuga. L’Italia, rispetto agli altri Paesi, non si discosta dal trend di crescita. Lungo la Penisola, stando ai dati, sono quasi quattro milioni i malati, di cui ben più della metà «over 65». Un dato che, comparato con quello di tre lustri fa, evidenzia un aumento di diffusione: +70%. E allora come fare fronte a questa epidemia?

«Sappiamo che, per il diabete di tipo II, non c’è strategia più efficace della prevenzione – prosegue Del Prato -. La dieta e un corretto stile di vita permettono di abbassare drasticamente il rischio, eppure assistiamo a una crescente ondata di obesità. Per adesso non c’è un dato che dimostri, su larga scala, la riduzione dell’età media dei pazienti. Se non invertiremo il trend, però, rischieremo di avere diabetici molto giovani, su cui non si potrà intervenire con i farmaci presenti sul mercato perché testati solo sulla popolazione adulta».

L’Italia, per adesso, è in mezzo al guado: va avanti con i rimedi tradizionali (metformina e sulfoniluree) senza poter far affidamento sulle incretine, in grado di aumentare la secrezione di insulina e limitare quella dell’ormone antagonista, il glucagone. È stata l’Agenzia regolatoria del Farmaco, nonostante l’ok già giunto nella maggior parte dei Paesi europei, a bloccarne la diffusione, sebbene le incretine abbiano dimostrato di prevenire i pericolosi episodi di ipoglicemia, finora affrontati con un massiccio ricorso ai farmaci. Situazioni – a detta degli esperti – evitabili attraverso la somministrazione proprio delle incretine, rivelatesi sicure sul piano cardiovascolare e in grado di mantenere inalterato il rischio di sviluppare pancreatiti e altre neoplasie.

Trovare una chiave per scardinare il diabete, come disturbo metabolico, vuol dire anche ridurre il rischio di sviluppare altre malattie: da quelle infettive ad alcuni tumori, dalla broncopneumopatia cronica ostruttiva alle patologie del tratto digerente, dalla malattie osteoarticolari a quelle cutanee. Ecco perché ripristinare il giusto controllo della glicemia può diventare una soluzione su più fronti. Se per il diabete II non c’è mezzo di controllo più efficace della prevenzione e si guarda con interesse agli effetti indotti dalla chirurgia bariatrica (migliora l’effetto sull’attività delle cellule beta del pancreas e la risposta periferica all’insulina), per le forme autoimmuni si continua a lavorare sull’impiego delle staminali, oltre che sul percorso del trapianto di isole pancreatiche.

«Esistono evidenze di un mantenimento dell’indipendenza dall’insulina nel 60% dei pazienti con diabete di tipo I dopo sette anni dal trapianto – argomenta Lorenzo Piemonti, responsabile del programma di ricerca “Trapianto di isole pancreatiche” al San Raffaele di Milano, unico centro con il Niguarda e l’Ismett di Palermo a eseguire la pratica in Italia -. La ricerca ha fatto passi da gigante: il rigetto e la ricomparsa dell’autoimmunità sono fenomeni che non sempre riusciamo a controllare, ma sappiamo che il trapianto di isole può essere associato all’infusione di cellule staminali mesenchimali per migliorarne i risultati».

 

di FABIO DI TODARO

 

da La Stampa.it