Cuore, cervello, retina e rene: proteggerli con un occhio alla pressione

Trattare la pressione non significa solo prendere buoni ‘voti’, ovvero ottenere valori al di sotto dei 140/90 mmHg. Il vero scopo del trattamento è proteggere l’organismo dai danni che la pressione alta produce nel corso degli anni, in particolare a carico degli organi più ricchi di vasi: cuore, cervello, retina e rene. Buone notizie sulla possibilità di proteggere il rene dagli insulti della pressione alta, vengono dallo studio Roadmap, presentato ad Oslo al congresso della Società Europea dell’Ipertensione (ESH).

“I piccoli vasi del rene – spiega il professor Hermann Haller, Dipartimento di Nefrologia e Ipertensione dell’Università di Hannover – sono danneggiati dalla pressione alta e uno dei primi segni di questa sofferenza è la microalbuminuria, cioè la comparsa di proteine nelle urine. Nel Roadmap l’olmesartan ha ridotto il rischio di microalbuminuria del 25% in un gruppo di oltre mille diabetici con ipertensione trattati con questo farmaco. Mentre è noto da tempo l’effetto protettivo degli ACE-inibitori nei confronti del danno renale, è la prima volta che questo viene dimostrato per un sartano”. E’ importante intervenire subito con i farmaci giusti dunque, per evitare la comparsa di danni a carico degli organi ‘tartassati’ dall’ipertensione. Ma ancora troppo pochi sono gli ipertesi ben controllati dalla terapia. In Italia appena uno su tre, come dimostra anche la recente indagine SHARE.

“I rischi associati all’ipertensione – ricorda Josep Redon, vice presidente dell’ESH – sono ben noti: è la principale causa di mortalità e morbilità per cause cardiovascolari, oltre che la terza causa di disabilità nel mondo. Tutti i pazienti con una pressione superiore a 140/90 mmHg dovrebbero dunque essere subito messi in terapia”. E la pressione purtroppo spesso colpisce durante le ore notturne, quando né il medico, né il paziente si accorgono della sua presenza; è importante dunque scegliere farmaci in grado di coprire tutte le 24 ore. Lo studio Esport, ha confrontato un gruppo di oltre 500 anziani trattati con olmesartan e altrettanti trattati con ramipril; dopo 12 settimane di trattamento il gruppo trattato con olmesartan mostrava una riduzione pressoria maggiore di quella ottenuta dal ramipril.

“Un dato confermato anche dal monitoraggio pressorio delle 24 ore – spiega il professor Massimo Volpe, vice-presidente della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa – che ha evidenziato anche come l’olmesartan controlli la pressione arteriosa in maniera uniforme per tutte le 24 ore, al contrario del ramipril, il cui effetto antipertensivo tende un po’ a svanire nelle ore che precedono la somministrazione successiva. E’ importante scegliere farmaci che proteggano anche nelle ore che precedono il risveglio, visto che è proprio allora che la pressione raggiunge i valori più alti di tutta la giornata”.

Nel campo della cosiddetta ipertensione resistente, quella che non scende neppure prendendo tre diversi farmaci (tra i quali un diuretico), una ricerca australiana dimostra che questa potrebbe essere legata anche a bassi livelli circolanti di renalasi, una proteina di recente individuata, implicata nella degradazione della noradrenalina, un potente vasocostrittore. Una scoperta questa che potrebbe aprire la strada a nuove modalità di trattamento. Uno studio congiunto delle Università di Verona e di Lund (Svezia) suggerisce invece che il gene STK39, potrebbe essere implicato nella comparsa di ipertensione tra le donne. Il gene codifica la chinasi SPAK, una proteina che controlla il riassorbimento di sodio dai tubuli renali, modulando l’effetto dei diuretici a questo livello. Anche SPAK potrebbe dunque diventare un target di terapie future, magari declinate al femminile.

 

 

di Maria Rita Montebelli

da Repubblica.it Salute