Vorrei

Avevo 10 anni, 10 mesi e 10 giorni quando mi ricoverarono ormai in coma, la glicemia a 1600. Stavo male da un mese, una serie di influenze curate male mi avevano minato l’organismo, dissero poi.

All’epoca conoscevo ben poco di cosa significasse essere diabetico, lo erano i miei nonni, ma per me voleva dire esclusivamente rinunciare ai dolci. Beata ingenuità…

I medici, cui va la mia gratitudine eterna, disperavano di salvarmi, ma mi strapparono alla morte iniziando subito a somministrarmi insulina con quelle siringhe da tossico, e la mia convinzione che facessero parte della terapia momentanea.
Ricordo bene come venni a sapere che un diabetico è condannato all’ergastolo, e il modo ancor m’offende.

Era una notte di gennaio, nel reparto pediatria c’era un silenzio irreale, quasi complice della nevicata che là fuori scendeva copiosamente, come a voler smorzare l’impatto con il dolore nuovo ed indicibile che di lì a poco avrei provato, sconvolgendomi la vita. Erano già passati diversi giorni dal ricovero e mi sentivo molto meglio, a parte la voglia fanciullesca di ritornare a casa con la mia famiglia e i miei giochi. Lessi una rivista che parlava di diabete, dove vi trovai una serie di domande e risposte, una mi colpì facendomi barcollare, come un pugno proibito assestato da un mostro troppo più grande e più forte di me: “Il bambino diabetico può guarire? No, il bambino diabetico rimane tale per tutta la vita.”

Per tutta la vita… per tutta la vita… per tutta la vita…

Dopo, nient’altro che un’indicibile angoscia e un impeto di rabbia ad annebbiarmi i sensi.
Quel “per tutta la vita” rimbombava nella testa come un colpo di cannone, avrei voluto scappare lontano, strapparmi la carne dalle ossa, picchiare la testa contro il muro maledicendo il giorno che venni al mondo.

Invece quel bambino, che troppo presto conobbe il dolore e la disperazione, ebbe la reazione più normale del mondo, chiamare la sua cara mamma perché gli dicesse che non era vero.
Piangemmo entrambi, quella sera, al telefono. Nel silenzio glaciale del corridoio della pediatria, nella penombra fino a tardi, strozzando i singhiozzi per non farmi sentire dalle infermiere del turno di notte.

Da allora sono passati 20 anni, più di 20.000 iniezioni, dolori, lacrime soffocate nell’anima impotente.
Ma la cosa che più mi fa sorridere, con il sorriso amaro di chi è vittima di una beffa, è quando ancora oggi sento dire: “Il diabetico è una persona normalissima”.

Vorrei non coricarmi ogni notte con l’angoscia di risvegliarmi in un lettino d’ospedale con un tubo di gomma e un ago conficcato nel braccio livido, a contorcermi dal dolore; vorrei abbozzare timidamente un futuro per me e che avesse un senso fare disegni a lunga scadenza, senza temere che i miei organi si consumino e mi uccidano prima di vedere il principio di un nuovo cammino; vorrei poter accarezzare un viso di fanciulla guardandola negli occhi, e farle una promessa che, invece, non posso mantenere; vorrei vivere perché una mamma non debba seppellire il proprio figlio.

Io vorrei anche solo un giorno di normalità.

Vorrei…

 

 

 

DC

28 ottobre 2006