Più vicina la cura a partire da cellule staminali

Messo a punto un nuovo metodo per generare centinaia di milioni di cellule pancreatiche beta in grado di produrre insulina a partire da cellule staminali pluripotenti umane. Il lavoro, pubblicato di recente sulla rivista Cell, è stato salutato dagli esperti come un passo importante verso la cura del diabete, anche se la strada da percorrere per tagliare il traguardo, dicono, è ancora lunga.

Il gruppo autore del lavoro fa parte del dipartimento di cellule staminali e biologia rigenerativa dell’Harvard Stem Cell Institute della Harvard University di Cambridge. Il team è guidato dal condirettore del dipartimento e dell’istituto, Douglas Melton. Melton stesso ha due figli affetti da diabete di tipo 1 e ha dedicato la sua carriera alla ricerca di una cura per la malattia quando è stata diagnosticata a uno dei due, più di 20 anni fa.

I risultati, scrivono Melton e i colleghi, “suggeriscono che le cellule beta derivate dalle cellule staminali rappresentano un’opportunità per la terapia cellulare del diabete. Finora la quantità limitata degli isolotti ottenibili da cadavere e la replicazione estremamente limitata delle beta cellule umane in vitro hanno limitato fortemente la disponibilità di beta cellule” e “queste limitazioni hanno limitato le opzioni di trapianto per i pazienti”.

Ora, invece, “la generazione di una quantità illimitata di cellule beta umane potrebbe rendere accessibile questa terapia a milioni di nuovi pazienti e potrebbe essere un importante banco di prova per la traduzione della ricerca di base sulla biologia delle cellule staminali nella clinica”.

Le cellule produttrici di insulina generate in passato da cellule staminali umane pluripotenti mancavano di molte delle caratteristiche funzionali delle beta cellule native. Il gruppo di Melton è riuscito ,invece, a mettere a punto un protocollo di differenziazione step-by-step in grado di produrre centinaia di milioni di beta cellule responsive al glucosio a partire da cellule staminali umane pluripotenti, in vitro.

Queste beta cellule, risultate simili a quelle degli isolotti pancreatici umani per ultrastruttura ed espressione genica, si sono dimostrare in grado di abbassare la glicemia, una volta trapiantate in topi diabetici. Inoltre, alcuni lotti hanno dimostrato di essere grado di secernere insulina tanto quanto gli isolotti ottenuti da cadavere.

Al momento, ha detto Melton in un’intervista, il suo gruppo sta iniziando la sperimentazione e non prevede d cominciare i test sull’uomo per almeno 3 anni.”

Robert Ratner, direttore scientifico e medico dell’American Diabetes Association, ha commentato il lavoro dicendo che i risultati sono importanti perché il gruppo di Harvard è stato in grado di generare un grosso volume di cellule beta, utilizzabili per i test in vitro.

L’esperto ha osservato che il volume delle cellule beta generate per ogni lotto – circa 300 milioni – potrebbe non essere ancora sufficiente per un trapianto nell’uomo, che ne richiede circa 500 milioni, ma comunque, “è una quantità logaritmicamente superiore rispetto a quelle ottenute in precedenza”. Secondo Melton e i colleghi, per il trattamento di un paziente potrebbero essere sufficienti una o due fiasche.

Tuttavia, i dubbi da dissipare non sono pochi. Uno su tutti: la durata della sopravvivenza delle cellule trapiantate. “Una settimana, un mese, o una vita, o una via di mezzo? Al momento non ne abbiamo idea”, ha detto Ratner

Altra questione da affrontare è il timore che la stimolazione delle cellule staminali necessaria perché crescano e si sviluppino possa indurre una trasformazione tumorale. “La sicurezza deve essere garantita” ha sottolineato l’opinion leader.

E poi resta il problema dell’autoimmunità che ha causato il diabete di tipo 1. Sarà quindi necessario, ha aggiunto il diabetologo, un metodo per proteggere le cellule dal rigetto, mediante immunosoppressione, incapsulamento o un mascheramento degli antigeni delle beta cellule in vitro, prima dell’infusione nel paziente.

A questo proposito, Julia Greenstein, vice presidente della ricerca presso la Juvenile Diabetes Research Foundation, ha detto di non credere che l’immunosoppressione sia la strada da percorrere nella stragrande maggioranza dei pazienti. La ricercatrice ha segnalato che presso il JDRF si sta lavorando parecchio su una tecnologia di incapsulamento che potrebbe risolvere questo problema.

Melton ha, invece, spiegato che il suo team sta studiando due modi diversi per proteggere le cellule beta dall’attacco del sistema immunitario. Innanzitutto, il gruppo sta collaborando con gli scienziati del Massachusetts Institute of Technology per sviluppare microcapsule, create facendo cadere pochi gruppetti di cellule in una goccia di alginato modificato chimicamente in modo da non permettere l’attacco su di esso dei fibroblasti. Per il trattamento di un animale, o eventualmente di un paziente, saranno necessarie centinaia di migliaia di queste microcapsule, ha aggiunto il ricercatore. L’altra strategia si basa su un’ampia membrana sulla quale sono posizionati milioni di cellule.

In ogni caso, ha ribadito Ratner, il nuovo protocollo rappresenta “un importante passo avanti verso la cura del diabete, ma c’è ancora molto lavoro da fare perché sia disponibile per i pazienti”.

F.W. Pagliuca, et al. Generation of Functional Human Pancreatic β Cells In Vitro. Cell. 2014;159:428-39;http://dx.doi.org/10.1016/j.cell.2014.09.040.

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da PHARMASTAR