La mia vita si e’ capovolta

L’estate scorsa la mia vita si è capovolta. A partire dalle abitudini più comuni, come quella di passeggiare al sole assaporando un gelato.

Già, perché il 13 luglio scorso ho scoperto che mio figlio, Gabriele, a soli sette anni ha il diabete. E non guarirà, almeno stando alle attuali prospettive della medicina. Ero in città, nello studio legale in cui lavoro con Davide, mio marito, mentre i miei due bambini se la spassavano al mare con la nonna. Al telefono, mia madre disse: «Gabriele non sta affatto bene». Ha una sete implacabile, fa pipi in continuazione e si ingozza di dolci. Potrebbe essere un segno del diabete, perché anche alla nipote di una mia amica …».

La solita nonno iper-ansiosa, ho pensato sbuffando.

Però poi mi sono affiorati alla mente episodi, piccole tessere di un puzzle che non mi piaceva affatto. Già da un po’ covava in me quel malessere tipico delle mamme che subodorano qualcosa di anomalo. Nelle ultime due settimane Gabriele era dimagrito in modo evidente, anche se mangiava molto, ed era sempre stanco. E poi c’era stata la storia del clown che il sabato precedente aveva coinvolto Gabriele in un gioco sulla spiaggia ma che poi c’era rimasto malissimo quando aveva visto la chiazza formarsi sui suoi boxer. Gabriele si era fatto la pipi addosso, cosa mai accaduta negli ultimi anni. Insomma, le parole di mia madre mi avevano messo ben più di una pulce nell’orecchio. Così, dopo una notte di lenzuola martoriate e torvi pensieri, ho chiamato il pediatra che, dal solito tono senza inflessioni, ha bruscamente virato verso una voce alterata: «I sintomi sono seri. Analisi del sangue immediate e mi comunichi il referto appena può».

Gli esami hanno parlato chiaro: glicemia altissima e corpi chetonici nelle urine, il che, come mi ha detto subito il medico, significava urgenza e ricovero immediato. Davide e io ci siamo infilati in auto quasi senza scambiarci una parola: due automi che eseguono il più velocemente possibile movimenti meccanici, con la mente ingombra di paure e domande che non trovano voce né risposte. Mio marito – pallido, con la fronte sudata – ha guidato fino a Milano Marittima a 200 all’ora, un blocco unico col volante, rigido come una pietra. Forse esageravamo, ma il nostro terrore inconfessato era il coma da crisi iperglicemia. L’esordio della malattia è infatti il momento più delicato, proprio perché fino a quel momento non si è seguita nessuna terapia e quindi la situazione è fuori controllo. Il pediatra ci aveva detto di tenere assolutamente sveglio Gabriele, così al telefono avevamo detto a Vittorio, l’altro nostro figlio di 11 anni, di tenere desta l’attenzione del fratellino.

Dieta, analisi e farmaci. Per sempre.

Quando siamo arrivati, i bambini giocavano a soldatini nella hall dell’albergo, circondati da una marea di ragazzini vocianti. Ogni due minuti Vittorio elargiva forti pizzicotti al fratello: impossibile che si addormentasse. Ho fissato Gabriele con occhi nuovi: è stata la prima volta, ma non l’ultima purtroppo, in cui ho cercato segni di malattia e sofferenza sul suo viso. Ma non ne ho trovati. Stava bene. Gli abbiamo detto che doveva fare una visita perché aveva troppo zucchero nel sangue, ma che non era nulla di preoccupante. Ci ha creduti, almeno in apparenza. Poi siamo corsi all’ospedale di Cesena, dove ci aspettava una equipe completa, pronta a eseguire esami e a somministrare l’insulina. Proprio davanti all’edificio, Gabriele è sbottato: «Mamma mi gira la testa … Sono stanco …». Paura. Di più: terrore. Di più: angoscia.

Stranamente, però, le prime analisi effettuate in ospedale sono state migliori del previsto. La glicemia era un po’ calata. Così ci hanno lasciato tornare a Modena, la nostra città, per poter ricoverare Gabriele in una struttura locale. Siamo arrivati all’ospedale alle 20.30 e anche lì tutto era già pronto. Ci attendeva una bella stanza linda, con la televisione già sintonizzata su Disney Channel. Di nuovo analisi, questa volta anche un’iniezione di insulina e poi il diabetologo ci ha convocati. «Sedetevi». E sapeva già che, altrimenti, sarei caduta per terra. «Vostro figlio ha il diabete di tipo 1». Confusione, disorientamento: cosa voleva dire? Non sapevo neppure che ci fossero due tipi di diabete. «Significa che per tutta la vita dovrà stare a dieta, misurarsi la glicemia e iniettarsi l’insulina. Però dovrete sforzarvi di vivere come sempre. E non precipitatevi ad indagare su internet per scovare tutte le conseguenze possibili della malattia, perché ogni caso è a sè»

Un altro mondo, dove non riconosco nulla.

Ricordo di aver gettato un occhio sui disegni e i poster sulle pareti: mostravano i personaggi dei cartoni, amati dal miei figli. Un universo familiare. E allora perché mi sentivo altrove. spostata di peso in un altro mondo, un mondo senza nomi né consuetudini, in cui tutto era da ribattezzare? Ero in bilico, al confine fra due vite. e percepivo il futuro come uno di quei sogni in cui un paesaggio improvvisamente si altera, i profili si allungano e si distorcono, le facce si deformano e non si riconosce più nulla. Cinque giorni di ricovero. e poi io e la mia famiglia siamo sbarcati nella nuova era. Quattro misurazioni della glicemia al giorno, tre o quattro punture di insulina (all’inizio le mani mi tremavano come foglie …). Tornare a casa con un bambino diabetico è un po’ come rientrare dopo il parto: hai uno sconosciuto tra le braccia, fragile e pieno di strane richieste. spesso difficili da interpretare. Per un mese ho dormito con un occhio solo e le orecchie tese. Avevamo portato Gabriele nel lettone, e io lo sbirciavo di continuo. Nella mia testa volteggiavano oscure minacce: crisi ipoglicemica, coma, iperglicernia … Spiavo ogni segno di pallore, ogni traccia di sudore sul suo viso. Annusavo il suo alito per percepire eventuali odori strani. Ero la sua ombra, il suo respiro.
Era troppo, lo so. Ma all’inizio è dura davvero. Perché ti senti addosso una responsabilità immensa, in questo gioco di equilibri tra “iper” e “ipo”. Hai sempre paura di sbagliare il dosaggio dell’insulina, o di non alimentare tuo figlio correttamente. Temi che un calcio al pallone in più gli faccia bruciare troppo zucchero e lo mandi giù, o che una forchettata di spaghetti in più glielo mandi su. Il diabete non ammette sbagli: ogni errore si paga. E ti sembra che tutto ricada sulle tue spalle. È vero che dall’ospedale ti danno una dieta specifica e tutte le indicazioni possibili. ma poi te la devi vedere tu con la realtà di tutti i giorni. Perché anche l’alimentazione va calibrata sul programma di un bambino che magari pratica sport due o tre volte alla settimana e che. quindi. non ha sempre lo stesso dispendio. Però pian piano ho trovato un equilibrio. Adesso so che, prima di affrontare due ore di allenamenti, Gabriele deve mangiare qualcosa, e che se invece deve andare a una festa. dove probabilmente sarà tentato da una fetta di torta, è meglio abbondare un po’ con l’insulina.

Con lo zucchero sempre In tasca

Una delle prime preoccupazioni, mia e di mio marito, è stata non far sentire Gabriele diverso: così, con il pieno appoggio di Vittorio, ci siamo messi tutti a stecchetto, e abbiamo deciso di mangiare le sue stesse cose. I dolci? Proibiti. Si diventa industriosi, ho scovato tutte le ricette e i prodotti possibili per gratificare il palato del mio figlio minore senza danneggiare la sua salute. Gelato senza zucchero, cracker di riso … E poi, siamo diventati la “famiglia con la bustina di zucchero”, ognuno di noi ne ha sempre una in tasca. Certo. quella prima impressione di dover ribattezzare tutto il nostro mondo era veritiera.

Ogni cosa che Gabriele ha fatto dopo l’ospedale ha avuto il sapore di una prima esperienza. Il primo allenamento di calcio, con il timore che lo zucchero nel sangue scendesse troppo. Il primo giorno di scuola quando davvero la glicemia ha sballato, probabilmente per un fattore psicologico, e infatti poi non ci sono stati più problemi. Le maestre sono state preparate da esperti dell’Asl ad affrontare eventuali momenti critici e quando, una volta alla settimana, Gabriele pranza alla mensa scolastica, vado a misurargli la glicemia prima del pasto e poi gli faccio compagnia mentre mangia.

Lui è sereno. La situazione, in questi mesi, è rimasta sotto controllo, e anche noi ci siamo rincuorati. Gabriele ha fatto spazio a questa novità nella sua vita con una tranquillità che mi allarga il cuore. Probabilmente anche perché, passato il primo impatto, io e suo padre siamo riusciti ad accettare la cosa. E soprattutto ci siamo sempre sforzati di non trasmettergli mai la nostra ansia, talora inevitabile.

All’inizio stavo cadendo in depressione. Un giorno stavo guidando e non ci ho visto più. Ho fatto gli esami, ma sapevo già cosa avevo: preoccupazione cronica. Il medico mi ha detto che avevo bisogno di un aiuto farmacologico: così mi ha prescritto delle gocce. Che non ho preso. Mi sono detta: se vuoi davvero aiutare tuo figlio, le gocce te le devi creare tu.

Così mi sono iscritta all’università per la seconda volta: Servizi sociali. Ho ritrovato i miei sogni, quelli veri. Il contatto costante con la malattia ti dona occhi nuovi per guardare le cose e le persone. Impari a selezionare. Recuperi il senso dei gesti, perché devi eliminare, sfrondare, e non puoi permetterti di sprecare nulla. Non c’è tempo da buttare. Non c’è spazio per il superfluo.

Mi laureerò in Servizi sociali. E fonderò un’associazione per il diabete giovanile e infantile nella mia provincia, perché il confronto è fondamentale.

 

 

 

(Testimonianza raccolta da Patrizia Tamarozzi)

da: “La Repubblica – inserto D” del 22.04.06