La corsa finale alla cura delle malattie autoimmuni

Per far capire al meglio a tutti le diverse strategie che si stanno percorrendo e perchè gli studi su nuove terapie impiegano tanto tempo…
Buona lettura!
Gli scienziati si stanno definitivamente avvicinando a terapie per curare le condizioni in cui il sistema immunitario delle persone attacca il proprio corpo, come il diabete di tipo 1 e la sclerosi multipla.
Invece di sopprimere l’intera risposta immunitaria, i ricercatori cercano di eliminare selettivamente le cellule che causano tali malattie o di “deprogrammarle”, somministrando per esempio gli stessi antigeni che attaccano per indurre tolleranza.
In uno studio pubblicato in questi giorni su NATURE, cellule immunitarie ingegnerizzate hanno messo in remissione le condizioni autoimmuni di 15 persone per molti mesi. Un traguardo clinico storico!
Questo studio è una luce che suggerisce che le malattie autoimmuni (almeno alcune) potrebbero davvero essere curate.
LA STORIA
Già una ventina di anni fa, immunologi dell’Università di Calgary (Canada) stavano esplorando un nuovo modo di studiare il diabete. Lavorando su modelli animali, avevano sviluppato un metodo che utilizza nanoparticelle di ossido di ferro per tracciare le cellule immunitarie chiave coinvolte nella distruzione delle isole pancreatiche. Poi ebbero l’idea audace di usare queste particelle come terapia per calmare (o addirittura uccidere), la specifica popolazione di cellule responsabili della malattia.
Ora, più di due decenni dopo, la terapia è sul punto di essere testata sulle persone. Da più di 50 anni i ricercatori cercano di domare le cellule responsabili di malattie autoimmuni. La maggior parte delle terapie approvate finora per queste condizioni funzionano per immunosoppressione, sopprimendo l’intera risposta immunitaria. Ciò spesso allevia i sintomi e la repentina comparsa della malattia, ma lascia le persone ad elevato rischio di infezioni e tumori.
LA TOLLERANZA
Per decenni, gli immunologi ed i clinici hanno sperato di ripristinare quella che è conosciuta come “TOLLERANZA IMMUNITARIA”: la capacità del sistema immunitario di ignorare gli antigeni che appartengono al corpo attaccando per contro solo quelli che non appartengono al corpo. Il nostro sistema immunitario infatti funziona facendo imparare ai linfociti nel tempo a distinguere le cellule da non attaccare e quelle da attaccare, attraverso tutta una serie di controlli e regolazioni. Quando la distinzione non è efficace nascono popolazioni di cellule linfocitarie “impazzite” che attaccano specifici tessuti del proprio corpo, ritenuti erroneamente come estranei allo stesso.
  • In alcuni casi, somministrare gli stessi antigeni che le cellule impazzite sono addestrate ad attaccare, può essere una strategia che “spegne” tali cellule impazzite, smorzando la risposta autoimmune.
  • Altri ricercatori stanno cercando di eliminare selettivamente le cellule impazzite, o di introdurre cellule immunitarie “soppressive” progettate specificatamente per colpire quelle impazzite. Un approccio che si basa su cellule immunitarie ingegnerizzate a tale scopo è stato utilizzato nello studio pubblicato su NATURE per trattare 15 persone affette da lupus o altri disturbi immunitari con sorprendente successo. Un partecipante è risultato privo di sintomi per più di due anni e mezzo, come se lo sviluppo dell’autoimmunità fosse stata bloccata. L’uso di cellule ingegnerizzate ha sempre un certo rischio. Ma se più studi condotti sulle persone mostrassero risultati altrettanto positivi nei prossimi anni, ciò potrebbe cambiare davvero le cose. Va ricordato che le terapie di cui disponiamo per molte di queste malattie croniche autoimmuni (es. insulina, anticorpi monoclonali, immunosoppressione) non sono assolutamente prive di rischi.
Il punto da affrontare ora è la variabilità della risposta autoimmune nella popolazione di pazienti. Non sempre i trattamenti con cellule ingegnerizzate o altri approcci soppressivi dell’autoimmunità dimostrano di funzionare efficacemente su tutti. Anche quando lo fanno, il miglioramento può non essere definitivo.
Comunque ora, con questi nuovi risultati, i trattamenti curativi sembrano possibili. L’unica domanda pare ora essere quale sia tra i diversi l’approccio migliore e meno rischioso.
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UN PO’ DI RIPASSO SE VOLETE…
Il sistema immunitario è noto per il suo ruolo nell’attaccare gli agenti patogeni. Ma ha un altro compito altrettanto importante: sapere quando ritirarsi. Se le cellule immunitarie vedono i tessuti del corpo come una minaccia, possono causare danni. Il braccio armato del sistema immunitario impegnato negli attacchi mirati è costituito da cellule chiamate linfociti, che si differenziano per formare cellule T (che tipicamente riconoscono e attaccano cellule estranee o malate), e cellule B (che producono anticorpi e supportano il sistema immunitario nella regolazione).
All’inizio del loro sviluppo, queste cellule subiscono un PROCESSO DI ELIMINAZIONE SELETTIVA quando prendono di mira i tessuti del corpo. In questo modo il sistema immunitario si evolve imparando a distinguere le cellule proprie sane da quelle che non lo sono, o che sono malate, e quindi devono essere eliminate (es. cellule cancerogene). Questo processo, noto come TOLLERANZA SISTEMICA, è “perdente” quando non riesce a bloccare le cellule che attaccano quelle del nostro corpo.
Di fatto può accadere statisticamente che alcune di queste cellule riescano a scampare alla selezione ed a sopravvivere nel tempo. Il corpo ha un sistema di “backup”, un meccanismo noto come TOLLERANZA PERIFERICA. Questo elimina o disattiva le cellule ribelli, o le trasforma in quelle che sono conosciute come CELLULE T REGOLATORIE, che sopprimono la risposta immunitaria impedendo ad altre cellule impazzite di attaccare.
Nelle malattie autoimmuni, SIA LA TOLLERANZA SISTEMICA CHE PERIFERICA NON FUNZIONANO AL MEGLIO, O SI BLOCCANO per ragioni non del tutto comprese. Il sistema immunitario inizia ad attaccare gli antigeni presenti sulle cellule e sui tessuti del corpo. Nella sclerosi multipla, il corpo attacca la guaina mielinica che isola i nervi. Nella celiachia, il glutine stimola il sistema immunitario ad attaccare il rivestimento intestinale. Nel T1D, vengono attaccate le cellule beta del pancreas. Se gli scienziati riuscissero a calmare o eliminare le cellule malfunzionanti, cioè ripristinando la tolleranza a specifici antigeni, potrebbero impedire che la malattia si sviluppi, senza ostacolare la capacità del sistema immunitario di rispondere alle altre minacce.
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I DIVERSI APPROCCI IN CLINICA
1. Un primo approccio si concentra sulla somministrazione di grandi quantità dell’antigene coinvolto, nel tentativo di esaurire o disattivare le cellule immunitarie che lo riconoscono. Molti gruppi hanno provato questa forma di desensibilizzazione (terapia antigene-specifica) con diversi livelli di successo. L’antigene deve essere assolutamente introdotto nel modo e tempo giusto, per aumentare la tolleranza piuttosto che iperattivare l’immunità .
Scegliere l’antigene giusto è comunque complicato. Solo poche malattie autoimmuni sono causate da una reazione a un solo antigene. Per molte delle condizioni più devastanti (sclerosi multipla, diabete, artrite reumatoide) il corpo sviluppa una risposta immunitaria contro diversi antigeni contemporaneamente, attraverso un fenomeno chiamato DIFFUSIONE DELL’EPITOPO. I ricercatori potrebbero provare a individuare tutti gli antigeni coinvolti, ma questo è un compito arduo, soprattutto perché l’elenco potrebbe variare anche da persona a persona.
2. Un’altra possibilità sarebbe quella di cercare un “interruttore generale” che, una volta girato, spenga la risposta autoimmune lasciando invece intatto il sistema immunitario “sano”. Gli immunologi dell’Università di Calgary (Canada) pensano di aver trovato un meccanismo adatto per questo.
Le nanoparticelle del suo team – che lui chiama “navacim” – sono decorate con recettori del complesso principale di istocompatibilità (MHC), i quali espongono sulla superficie specifici antigeni, tra i quali quelli coinvolti nello sviluppo dell’autoimmunità. La tecnologia novacin mima il meccanismo di esposizione già svolto da cellule immunitarie regolatrici, note come CELLEULE PRESENTANTI L’ANTIGENE, che di continuo assorbono gli antigeni da tutto il corpo e li espongono ai linfociti T.
Questo processo di continua esposizione di antigeni avviene naturalemente nel corpo e serve per istruire i linfociti T a riconoscere ed attaccare cellule attaccate da patogeni o cellule tumorali, oppure a riconoscere le cellule proprie del nostro organismo, preservandole dall’attacco.
Lo sviluppo di questa tecnica partì con un modello murino di T1D, una malattia ben nota la diffusione degli epitopi. I ricercatori avevano sviluppato un cocktail di particelle che trasportavano otto diversi frammenti di antigene (epitopi). Come controllo, avevano utilizzato una nanoparticella che trasportava uno solo degli epitopi. Sorprendentemente, tuttavia, sia le nanoparticelle di controllo (con un solo epiteto) che quelle sperimentali (tanti epitopi) avevano invertito il decorso della malattia autoimmune.
Dopo anni di studi gli studiosi di Calgary pensano di aver compreso ora nel dettaglio cosa sta alla base di questo meccanismo. Le nanoparticelle che espongono gli antigeni spingono le cellule T a moltiplicarsi e trasformarsi in cellule T regolatorie, che viaggiano verso il sito dell’infiammazione autoimmunitaria. Lì legano e disattivano le cellule presentanti l’antigene che trasportano non solo l’antigene riconosciuto da queste cellule, ma migliaia di altri antigeni importanti nel diabete.
Quindi queste cellule non riescono più ad attivare le cellule immunitarie che alimentano la malattia. In un certo senso, l’antigene fuso con le nanoparticelle funziona come un “interruttore principale” che è efficace nello spegnere l’attacco immune.
I ricercatori hanno fondato un’azienda (Parvus Therapeutics, San Francisco) che dovrebbe iniziare la sua prima sperimentazione sull’uomo quest’anno, a partire da una malattia autoimmune che colpisce il fegato. Quest’organo è il luogo in cui viene filtrato tutto il sangue che trasporta antigeni estranei dall’intestino, ed ha un ruolo importante nello stabilire la tolleranza immunitaria. I “detriti cellulari” che arrivano al fegato con il circolo sanguigno (contenenti antigeni) trasportano una specie di “etichetta” di natura zuccherina che li indirizza proprio al fegato.
Gli studiosi hanno visto che aggiungendo questa etichetta di zucchero ad altre proteine, potevano dirigere praticamente qualsiasi molecola volessero proprio verso il fegato, compresi gli antigeni come le proteine ​​della mielina che attivano il sistema immunitario nella sclerosi multipla. In un lavoro pubblicato nel 2023, i ricercatori avevano dimostrato che questa strategia funziona per invertire i sintomi di una malattia simile alla sclerosi multipla in un modello murino. La cosa importante era che gli animali avessero una malattia in stadio avanzato, il che significa che il loro sistema immunitario probabilmente stava reagendo contro una varietà di diversi antigeni. Tuttavia, soprendentemente, il trattamento anche con un solo antigene pareva funzionare per invertire la paralisi immunitaria.
Una società chiamata Anokion a Cambridge, sta testando questo approccio terapeutico in uno studio clinico di fase I su persone affette da sclerosi multipla, per valutarne la sicurezza. I promettenti risultati, hanno indotto la company ad arruolare già una serie di partecipanti ad uno studio di fase II, in cui si inizierà a valutarne l’effettiva efficacia e l’approccio teraputico migliore nel reprimere la malattia. Tra le problematiche, introdurre nanoparticelle che sono corpi estranei, non è sempre visto di buon occhio da molti scienziati.
3. Un’altra azienda (Sonoma Biotherapeutics) sta invece adottando un approccio diverso che non usa nanoparticelle ma cellule ingegnerizzate. I ricercatori coinvolti prelevano cellule T dal sangue dei pazienti, estraggono le cellule regolatrici, e le ingegnerizzano per esprimere un antigene che indirizza le cellule T REGOLATORIE verso il sito della malattia (una volta re-iniettate). Lì paiono in grado di “calmare” tutte le cellule T “incontrollate” nelle vicinanze, non solo quelle che riconoscono l’antigene specifico che trasportano, espandendo le potenzialità di successo.
Sonoma aveva già testato le cellule T regolatorie in studi clinici, ma in questo proseguo si agisce direttamente su cellule progettate per esprimere un antigene specifico. Si prevede di somministrare la prima dose a una persona affetta da artrite reumatoide all’inizio del 2024.
L’azienda ritiene che il loro approccio sia meno rischioso rispetto alla somministrazione diretta di antigeni, che potrebbero esacerbare ulteriormente l’autoimmunità in maniera controproducente. Inoltre, le cellule T regolatorie producono fattori di riparazione dei tessuti, che potrebbero aiutare ad invertire parte del danno provocato dalla malattia.
Per contro, le terapie cellulari comportano diverse sfide, tra cui costi elevati e potenziali effetti indesiderati. I problemi di questo approccio nascono dalla manipolazione genica delle cellule e dalla difficoltà di prestabilire un dosaggio efficace nei pazienti (sono cellule che si moltiplicano una volta iniettate).
4. Mentre gli studi sopra menzionati si indirizzano a stimolare il sistema immunitario verso la tolleranza, altri stanno sviluppando terapie per uccidere direttamente le cellule immunitarie che contribuiscono allo sviluppo dell’autoimmunità. Un team in Germania sta provando un approccio comunemente usato per trattare i tumori del sangue che dota le cellule T di quello che è noto come RECETTORE DELL’ANTIGENE CHIMERICO (CAR).
I medici prelevano cellule T dal corpo del paziente e le ingegnerizzano per esprimere sulla loro superficie questo recettore sintetico specializzato. Possono creare un “CAR-T” sulle cellule T che si lega ad un recettore specifico presente sulle cellule B, per formare un complesso di cellule T e B che elimina queste ultime.
Finora i ricercatori hanno presentato i risultati per un totale di 15 persone per diverse malattie autoimmuni (lupus; sclerosi, miosite infiammatoria idiopatica). Il decorso dell’autoimmunità è spesso migliorato notevolmente. La cosa più importante è che sono risultati nel tempo tutti in remissione, anche dopo aver iniziato a produrre nuove cellule B. È come se l’eliminazione delle cellule B ripristinasse l’intero sistema immunitario in uno stato tollerante.
La terapia è già risultata efficace in clinica per i tumori ed i risultati paiono davvero essere promettenti anche per l’autoimmunità. Il primo partecipante allo studio, che aveva il lupus, ha superato la soglia dei 1.000 giorni a dicembre senza alcun segno di comparsa della malattia. Certo, non è detto che la malattia possa scomparire definitivamente in ogni paziente, in particolare perchè, anche se inibite, le cellule T che provocano il lupus rimangono ancora lì anche se silenti.
Inizialmente, il principale svantaggio della terapia CAR-T era che prendeva di mira e uccideva tutte le cellule B, rendendo difficile considerare l’approccio un modo attuabile per ripristinare la tolleranza specificatamente. Tuttavia nel corso della progressione della tecnica su una dermatosi bollosa autoimmune (pemfigo) si è dimostrato che ciò poteva essere fattibile.
Qui il sistema immunitario produce anticorpi contro una proteina della pelle chiamata desmogleina (proteina responsabile di tenere insieme le cellule epiteliali; nella malattia le cellule si disgregano e si formano vesciche su tutta la mucosa della pelle). Attualmente, in clinica la terapia standard in uso per il pemfigo è un anticorpo monoclonale che agisce distruggendo le cellule B. Una volta scomparse le cellule B, gli anticorpi contro la desmogleina scompaiono e le persone vanno in remissione. Purtroppo l’infusione dell’anticorpo monoclonale ripetututa nel tempo è davvero problematica e rischiosa per il paziente.
Alcuni ricercatori hanno pensato per questa malattia autoimmune di modificare l’approccio terapeutico CAR-T, progettando cellule T per esprimere solo la proteina desmogleina. Questa terapia è nota come “CELLULA T CAAR” (recettore chimerico degli autoanticorpi), dove viene fatto presentare ai linfociti B solo ‘epitopo responsabile dell’autoimmunità. Essa di fatto prende di mira solo le CELLULE B AUTOREATTIVE che causano la malattia, lasciando intatte le altre cellule B. La società Cabaletta Bio di Filadelfia sta attualmente testando queste cellule su persone affette da pemfigo o da miastenia grave.
Tra le diverse strategie, le cellule B stanno emergendo davvero come un bersaglio promettente in molte malattie autoimmuni. In alcuni dei disturbi più comuni, le cellule B hanno ruoli complessi. Non solo producono anticorpi, ma producono anche segnali che innescano l’infiammazione e presentano antigeni alle cellule T, contribuendo ad alimentare il fuoco che mantiene accese le malattie autoimmuni. In immunologia finora ci si concentrava principalmente sulle cellule T, perché direttamente coinvolte nell’azione distruttrice. Tuttavia le attuali conoscenze paiono indicare che forse le cellule B possono davvero essere una chiave efficace e meno rischiosa.
Di fatto, molti dei fallimenti passati derivavano da una scarsa comprensione dei meccanismi che stanno alla base dell’autoimmunità. Testare diversi approcci su differenti malattie ci sta facendo davvero capire quali possano essere le strade più efficaci da poter percorrere per essere efficaci e ridurre al massimo i rischi.
Contemporaneamente si devono continuare a perseguire altre strade, come quelle attualmente in clinica che usano cellule coltivate/modificate ed infuse, ad esempio per produrre insulina e per non venire nel tempo rigettate.
[ Nature 625, 646-648 (2024) ]
A cura di Gianpiero Garau
Scientist
Researcher
Istituto Italiano di Tecnologia
BIOSTRUCTUREs LAB. Istituto Italiano di Tecnologia – IIT@NEST, Scuola Normale Superiore of Pisa, Piazza San Silvestro 12, 56124 Pisa – Italy.