Inventata tecnica per ‘smascherare’ le staminali del pancreas

Staminali, queste sconosciute. Un po’ come i latitanti braccati dalle polizie di tutto il mondo, di queste cellule si narrano le gesta, ma nessuno sa davvero come riconoscerle. Da oggi, però, grazie a uno studio pubblicato sulla rivista PNAS (Proceedings of the National Accademy of Science) e firmato dal premio Nobel per la medicina 2007 Mario Capecchi e da Eugenio Sangiorgi, giovane ricercatore dell’Istituto di Genetica medica dell’Università Cattolica di Roma (diretto da Giovanni Neri), sappiamo come smascherare le cellule staminali mimetizzate nel pancreas.

“Al di là di quello che talune volte si legge o che l’opinione pubblica crede – racconta Sangiorgi – delle cellule staminali non sappiamo ancora molte cose. Sembrerà strano, ma per esempio non abbiamo un modo per distinguere a priori in un tessuto una cellula staminale in mezzo a tutte le altre. Per esempio dalla forma o dalla funzione. Che una cellula sia davvero una staminale lo possiamo capire solo osservandone il comportamento”.
In altre parole, quando un ricercatore si trova davanti un tessuto, non è immediatamente possibile indicare con certezza e isolare una staminale. In alcuni casi, come per esempio nel midollo osseo, sappiamo ormai dove si trovano e come individuarle – tanto che si effettuano con successo da anni trapianti che salvano molte vite. Ma nel caso del pancreas, come nel caso di tanti altri tessuti, fino a pochi anni fa si dubitava persino che fossero presenti questo tipo di cellule speciali, in grado di generare tutte le altre cellule dello stesso tessuto (anche chiamate “staminali adulte”).

“Già in passato, assieme al professor Capecchi avevamo individuato una maniera per marcare le cellule staminali in un tessuto: una specie di bandierina che ci aiuta a capire quali sono effettivamente le cellule che stiamo cercando”, spiega ancora Sangiorgi. Per fare questo, Capecchi e Sangiorgi hanno utilizzano un interruttore molecolare, cioè un pezzo di DNA che si attiva nel momento in cui al topolino sotto esame viene dato un farmaco speciale. Una volta “acceso” l’interruttore, viene prodotta una speciale proteina fluorescente (e, tra l’altro, proprio per lo studio di proteine come questa l’anno scorso è stato assegnato il Nobel per la chimica). Le cellule diventate luminose sono proprio le cellule staminali cercate.

“Per capire che sono staminali non c’è altro da fare che aspettare – afferma Sangiorgi- Una cellula normale è destinata a morire prima o poi. Una cellula staminale invece conserva la capacità di autorinnovarsi e riprodursi. Insomma, se passati molti mesi vediamo che quella cellula luminosa è ancora viva, vuol dire che è una staminale – o una cellula derivata dalla divisione di una cellula staminale”.

Nell’articolo appena uscito sui Proceedings, Sangiorgi e Capecchi hanno dimostrato con la loro tecnica che una particolare popolazione di cellule del pancreas, le cellule acinari, sono proprio staminali. La cosa particolarmente interessante è che queste cellule producono anche degli enzimi importanti per la digestione.

“Finora la cellula staminale era considerata come una specie di generale che comanda tutte gli altri, ma non fa nulla: una cellula cioè indifferenziata, sì, ma senza altri compiti specifici che non fosse quello di generare nuovo tessuto. Le cellule acinari, invece, pur essendo staminali, hanno un compito ben specifico nel pancreas. Sono come dei soldatini che svolgono il loro lavoro ma che, alla bisogna, sono in grado di prendere le redini del comando”, racconta Capecchi con una metafora.

In sostanza, il lavoro di Sangiorgi e Capecchi apre la strada a una estensione della definizione di staminale che consentirà di studiare meglio i meccanismi di proliferazione che sono alla base del successo di queste cellule – e del loro potenziale pericolo.
“Grazie alla loro capacità straordinaria di riprodursi – spiega infatti Sangiorgi – queste cellule possono anche essere cancerogene. Ma se riusciamo a costruire uno strumento efficace come il nostro per isolarle e studiarle anche negli altri organi, possiamo comprenderne le proprietà e dare molte risposte sul loro funzionamento. Una delle cose che vorremmo capire è se anche in vivo questo tipo di cellule in qualche modo eterne sono più suscettibili al tumore – per esempio a causa del fatto che vivendo tanto a lungo accumulano tutti i possibili fattori di modificazione derivanti dall’ambiente”.

Eugenio Sangiorgi collabora da molti anni con Mario Capecchi: “la mia stima per lui era già molto alta prima che vincesse il Nobel – dice ammirato – La cosa più bella di lui è che a 72 anni suonati fa ancora ricerca per davvero ed è entusiasta come un bambino pieno di idee”.

 

da SaluteEuropa