Intervista al dr Matteo Bonomo sul Pancreas Endocrino Artificiale

Il Dott. Matteo Bonomo è nato a Milano il 23 marzo 1952, si è laureato in Medicina presso l’Università degli Studi di Milano nel 1976, si è specializzato in Endocrinologia e Malattie del Ricambio e in Medicina Interna presso l’Università degli Studi di Parma.

Ha sempre svolto la propria attività clinica e scientifica in ambito diabetologico, con particolare interesse nei campi del Diabete di tipo 1 e del Diabete in Gravidanza. Lavora presso la S.C. di Diabetologia e Malattie Metaboliche dell’Ospedale “Niguarda Ca’ Granda” di Milano, dove è responsabile-coordinatore del “Centro Interdisciplinare Diabete e Gravidanza”. Coordina inoltre l’attività degli Ambulatori specialistici dedicati al Diabete di Tipo 1 e ai Sistemi a Tecnologia Avanzata.

Da tempo ha sviluppato un particolare interesse nei confronti dei sistemi tecnologici per la terapia del Diabete di tipo 1: all’inizio degli anni ‘80 il Centro di Niguarda è stato fra i primi in Italia ad applicare i microinfusori di insulina s.c. della “I a generazione”, e ad utilizzare il Pancreas Endocrino Artificiale “BIOSTATOR”. Questo ambito di attività si è ulteriormente sviluppato negli ultimi anni, con l’introduzione dei nuovi microinfusori, e dei sistemi di monitoraggio continuo del glucosio. Attualmente l’Ambulatorio dedicato ha in cura circa 130 pazienti trattati con microinfusore (molti con sistemi “integrati” infusore-sensore), ed ha una fra le più ampie casistiche nel campo del monitoraggio continuo del glucosio (circa 1000 registrazioni, ottenute utilizzando sia sistemi ad ago, a tipo “Holter” o “real-time”, sia sistemi a microdialisi).

Dal momento della sua istituzione, nel maggio 2005, è membro del Comitato di Coordinamento del Gruppo di Studio Interassociativo AMD-SID “Tecnologia e Diabete”.


Dr Bonomo , perchè è così difficile per un diabetico controllare la glicemia?

Innanzitutto bisogna intendersi su che cosa si intende per “controllare la glicemia”.

Come premessa, voglio sottolineare come gli obiettivi della terapia del Diabete Mellito siano progressivamente cambiati negli ultimi decenni. Dopo l’introduzione in terapia dell’insulina, si è passati da un trattamento che puntava ad assicurare semplicemente la sopravvivenza, ad un approccio più articolato, mirante al contenimento della sintomatologia (quindi al controllo delle complicazioni acute iper- e ipoglicemiche).

Oggi (se non in casi particolari) non ci sono grandi difficoltà ad ottenere un compenso glicemico tale da evitare i sintomi classici dello scompenso diabetico. Tuttavia, questo che fino a non molto tempo fa era un obiettivo importante, non può più assolutamente essere considerato sufficiente (anche se rimane, ovviamente, una base di partenza necessaria). I risultati dei grandi trias clinici degli anni ’90 hanno infatti dimostrato in modo incontrovertibile che sia nel diabete di tipo 1, sia nel diabete di tipo 2, la prevenzione delle complicanze croniche richiede l’ottenimento e il mantenimento a lungo termine di valori glicemici il più possibile vicini alla norma, cioè di quella che si chiama “euglicemia”.

Sulla base anche delle ricerche degli ultimi anni, si è oggi convinti che si debba puntare non solo ad una normalizzazione dei valori glicemici medi, ma che sia fondamentale anche contenere le oscillazioni glicemiche, riducendo quindi la “variabilità glicemica”.

Questa è oggi la premessa per giungere evitare il rischio di complicanze, ed anche per puntare a quello che oggi considero l’obiettivo più avanzato, molto ambizioso, ma ormai alla nostra portata, che è quello della normalizzazione della qualità di vita del soggetto diabetico.

In questa prospettiva, quale è il ruolo della tecnologia applicata alla terapia insulinica?

A mio parere è un ruolo di estrema importanza: già i microinfusori di insulina della nuova generazione, miniaturizzati e programmabili, hanno rappresentato un passo avanti straordinario, consentendo una modalità di erogazione dell’insulina molto più fisiologica di quella ottenibile con schemi anche molto complessi di plurisomministrazioni s.c.

Un ulteriore passo avanti, anch’esso di grande rilievo, è stata l’introduzione nella pratica clinica dei sistemi di monitoraggio continuo del glucosio, che consentono una conoscenza dettagliata dell’andamento glicemico di gran lunga superiore a quella ottenibile con l’autocontrollo su sangue capillare, inevitabilmente limitato dalla sua natura intermittente. Si pensi solamente alle informazioni che si possono ottenere su quanto accade nelle ore notturne, e al vantaggio che ne può derivare per una corretta “taratura” dell’intervento terapeutico.

La disponibilità di sensori in grado di fornire la glicemia “in tempo reale”, e la possibilità di mettere in collegamento questi strumenti con un microinfusore, ottenendo quindi dei sistemi “integrati” ci ha portato alla situazione attuale, certamente molto stimolante e promettente.

Possiamo considerare questi “sistemi integrati” già dei piccoli pancreas artificiali?

No, siamo ancora lontani da questo risultato. Con i sistemi integrati attualmente disponibili siamo ancora nel campo della “ansa aperta”, mentre un vero pancreas artificiale dovrà essere un sistema ad “ansa chiusa”. Si tratta di un concetto fondamentale, che è bene chiarire, prima di proseguire il nostro discorso.

Un sistema ad ansa chiusa dovrebbe funzionare in modo del tutto automatico: deve prevedere una rilevazione continua dei valori glicemici, e l’invio delle informazioni così ottenute ad un sistema di controllo che, sulla base di funzioni matematiche preimpostate (“algoritmi”) stabilisce con precisione quanta insulina è necessaria. Dal sistema di controllo viene poi automaticamente regolato un sistema di infusione che provvede ad erogare l’insulina. In questo modo l’ansa si può definire “chiusa” perché il tutto funziona senza interventi dall’esterno, né del paziente, né del medico.

La terapia insulinica intensiva attualmente utilizzata, anche nei casi più sofisticati, funziona invece come un sistema ad ansa aperta. Questo significa che il procedimento non è automatico, ma prevede l’intervento esterno (del paziente o del medico), che “apre” l’ansa in uno o più punti. In altre parole: i valori glicemici vengono rilevati in maniera intermittente con il glucometro, o in modo continuo tramite i sistemi di monitoraggio continuo. A questo punto è il paziente (o il medico) che svolge la funzione del “controller”: ragiona sui dati ottenuti e decide la dose insulinica (magari aiutandosi con algoritmi semplici, comunque non automatici). Presa questa decisione la erogazione dell’insulina viene fatta o con metodi intermittenti (plurisomministrazioni di insulina) o programmando in modo adeguato il funzionamento di un infusore.

Anche con i sistemi “integrati” sensore-infusore c’è quindi sempre un intervento esterno all’ansa, che non è in grado di funzionare automaticamente, ma risulta aperta in almeno uno dei suoi punti cruciali, consistente nella decisione delle dosi e delle modalità temporali di erogazione dell’insulina.

Anche queste pompe “intelligenti”, in realtà, si limitano suggerire il comportamento da seguire in alcuni momenti (boli prandiali e boli correttivi), ma non hanno ancora una autonomia di decisione.

Come dobbiamo immaginare allora un ipotetico pancreas artificiale?

Possiamo definire il Pancreas Artificiale come uno strumento (o un sistema di strumenti integrati fra loro), composto solo con materiali sintetici (quindi non biologici), che sostituisce il pancreas endocrino: a) rilevando il livello di glucosio nel sangue, b) decidendo la quantità di insulina necessaria, c) fornendo la quantità appropriata di insulina.

Tenendo conto di queste esigenze, e ritornando al modello di “ansa chiusa” di cui abbiamo parlato poco fa, i componenti essenziali dovrebbero quindi essere almeno tre: un sensore, in grado di monitorare in continuo i livelli di glucosio nel sangue o nei liquidi organici, un sistema di infusione automatico di insulina, un sistema di controllo (basato su una funzione matematica, o algoritmo) in grado di determinare la quantità di insulina da somministrare. Il tutto dovrebbe essere totalmente impiantabile, anche se è possibile immaginare, in una prima fase, sistemi misti, con componenti interni ed altri esterni.

Al momento nessuno strumento con queste caratteristiche è disponibile per una applicazione clinica, anche se sono in sperimentazione, sia nell’uomo che nell’animale, diversi prototipi che hanno fornito risultati interessanti. Comunque, nessuno degli strumenti impiantabili applicati in via sperimentale è finora rimasto in azione in modo soddisfacente per più di 48 ore (con l’unica eccezione di un sistema giapponese, attivo per 14 gg, ma presentante problemi di altro tipo, che ne hanno limitato lo sviluppo).

Quali sono le difficoltà ancora da superare per arrivare a questo traguardo?

I problemi riguardano tutte e tre le componenti dell’ansa, oltre che la loro integrazione, anche se su alcuni punti i progressi fatti sono stati maggiori che in altri.

Iniziando dal rilevamento della glicemia, l’obiettivo da raggiungere è quello di un sensore in grado di funzionare a lungo a contatto con i liquidi organici, senza perdita di sensibilità, con accuratezza e precisione ottimali in tutte le situazioni della vita reale. Negli ultimi anni si è molto lavorato in questo campo, ed attualmente esistono diversi tipi di sensore del glucosio, comunque riconducibili a 5 grandi categorie: 1) s.c. ad ago; 2) s.c. impiantabili; 3) e.v. ad ago; 4) esterni, con sistema di microdialisi; 5) e.v. interni. Ognuna di queste soluzioni ha i suoi pregi e i suoi difetti, ma si può dire che nessuna di esse soddisfa appieno le richieste.

In particolare, per i sensori s.c., sui quali si è acquisita la maggiore esperienza, essendo utilizzati nei monitor esterni già introdotti nella pratica clinica, esiste la questione della non corrispondenza fra le concentrazioni di glucosio presenti nel liquido interstiziale e nel comparto intravascolare. La differenza è trascurabile in condizioni di stabilità glicemica, ma diventa importante nei momenti di rapida variazione (tipicamente, nella fase post-prandiale, o dopo iniezione di insulina), quando si verifica uno sfasamento temporale di entità variabile da pochi minuti a periodi notevolmente più lunghi. Inoltre, la necessità di procedere a periodiche calibrazioni fa perdere quel vantaggio di “liberazione” dall’autocontrollo capillare che è una delle esigenze maggiormente sentite dai pazienti.

Comuni a tutti i tipi di sensore sono poi i problemi di esaurimento dopo inserimento prolungato, per reazione fibrosa locale o per vera reazione di rigetto, e quelli legati a complicazioni infiammatorie e infettive, solitamente localizzate per i sistemi sottocutanei, ma potenzialmente più estese, e quindi più gravi, per quelli intravascolari.

Nel loro insieme, quelli legati al sensore sono probabilmente i fattori maggiormente limitanti rispetto ad un uso continuativo, e sono principalmente alla base della limitata estensione temporale delle esperienze finora condotte.

Altra categoria di problemi è quella che riguarda l’infusione di insulina. Non tanto per quanto concerne il sistema di infusione in sé, per il quale sono state messe a punto pompe miniaturizzate impiantabili e ricaricabili dall’esterno soddisfacenti, già oggi in uso nelle poche esperienze in corso di microinfusori impiantabili (anche se vanno tenuti in conto i rischi di possibili complicazioni chirurgiche ed anestesiologiche in fase di impianto ed espianto), e nemmeno per la disponibilità di insuline ad alta concentrazione e sufficientemente stabili per un uso prolungato a temperatura corporea (anch’esse già utilizzate nelle pompe impiantabili). Rimane invece da risolvere la questione della sede di infusione, cioè del compartimento dove debba essere riversata la insulina erogata dall’infusore.

E’ noto che fisiologicamente, l’insulina prodotta dal pancreas viene immessa nel circolo portale, attraverso il quale raggiunge rapidamente il fegato, dove più del 50% viene estratta nel corso del primo passaggio. Questo modello non è evidentemente riproducibile con un’infusione s.c., con la quale vi è un inevitabile ritardo iniziale dovuto all’assorbimento dal tessuto interstiziale, e un successivo passaggio nel circolo venoso sistemico; anche un infusione e.v. diretta, tuttavia, non può essere considerata soddisfacente in quanto viene “saltato” il primo passaggio epatico, comportando sia un ritardo nel picco di azione, sia, una iperinsulinizzazione sistemica non desiderata.

L’ideale sarebbe una liberazione direttamente portale, che però presenta difficoltà tecniche non facilmente risolvibili; la soluzione che a questa più si avvicina è quella di un’infusione intraperitoneale, adottata nella esperienza francese sulle pompe impiantabili e, sempre in Francia, nella esperienza pilota di pancreas artificiale condotta a Montpellier dal Prof. Rénard. Anche la via peritoneale ha, tuttavia, i suoi difetti, consistenti in un assorbimento dell’insulina ancora lievemente ritardato rispetto ad un infusione portale diretta.

Infine, non si dispone ancora di algoritmi di infusione ottimali: nessuno dei modelli matematici finora proposti riesce a riprodurre esattamente la dinamica della produzione insulinica operante nella persona non diabetica.

Questo è probabilmente l’elemento più critico sulla strada verso un pancreas artificiale realmente utilizzabile. Le difficoltà da risolvere sono sostanzialmente di tre tipi:

•  definizione di modelli sufficientemente precisi per predire le dosi necessarie nelle diverse situazioni che possono verificarsi nella vita reale;

•  modalità di correzione dell’ipoglicemia: non è infatti prevista l’infusione né di glucagone né di glucosio, e questo costringe spesso a correggere in modo non sufficientemente aggressivo l’iperglicemia, per evitare il rischio di eccessivo abbassamento dei valori glicemici;

•  modalità di erogazione del bolo ai pasti, evitando sia il rischio di boli inappropriati in occasione di “picchi” occasionali di glicemia non dovuti ai pasti, sia quello di boli inadeguati, con conseguente iper post-prandiale. Una soluzione potrebbe essere l’intervento del paziente per avviare il bolo (ma questo é ovviamente in contraddizione al funzionamento ad ansa chiusa).

Pur con tutte questi problemi, esistono già sistemi che vengono definiti ”pancreas artificiali”. Può dirci qualcosa di queste esperienze?

Certo, già in passato erano stati messi a punto, ed avevano avuto una certa diffusione anche nel nostro Paese, sistemi ad ansa chiusa per la regolazione automatica della glicemia, ai quali era stato dato il nome di “beta-cellule artificiali”. Il più noto di questi strumenti è stato il “BIOSTATOR GCIIS” della Ames-Miles, basato su un prelievo continuo di microquantità di sangue venoso tramite un catetere ad ago, sulla determinazione dei valori glicemici effettuato da un sensore enzimatico esterno, e sulla infusione di glucosio e/o insulina tramite un sistema di pompe peristaltiche regolate da un “controller” anch’esso esterno. Si trattava, quindi, di un apparecchio esterno “bed-side”, utilizzabile solamente su soggetti ospedalizzati, di notevoli dimensioni e di una certa complessità d’uso. Dopo un periodo di iniziale entusiasmo, nel quale si erano ipotizzate e sperimentate numerose applicazioni cliniche, la sua utilizzazione si è quasi esclusivamente limitata ad un uso diagnostico, o di ricerca clinica; attualmente non è più in produzione, anche se viene ancora usato in alcuni Centri specialistici, soprattutto per studi di “clamp”.

Altra cosa sono, invece, le sperimentazioni attualmente in corso su strumenti di regolazione automatica della glicemia impiantabili, o comunque portatili, quindi adatti ad un uso ambulatoriale. In questo caso può essere corretto parlare di “pancreas artificiali”, secondo la definizione che abbiamo dato all’inizio; va comunque sottolineato che tutti i prototipi da anni in studio da parte di gruppi di vari Paesi (europei, americani, giapponesi), a causa della mancata o incompleta risoluzione dei problemi prima elencati non sono ancora proponibili per un’applicazione clinica, al di fuori di un ambito strettamente sperimentale.

Dr Bonomo, secondo lei, tra quanto tempo sarà disponibile quello che si annuncia essere una vera “rivoluzione” nella terapia del diabete?

E’ veramente molto difficile fare previsioni di questo tipo. Credo che qualche soluzione intermedia, con sistemi “misti” comprendenti componenti sia interne che esterne, possa essere disponibile già per i primi anni del prossimo decennio. Per avere sistemi affidabili totalmente impiantabili, invece, l’attesa sarà certamente più lunga, ma non credo lunghissima: ottimisticamente si può pensare a un periodo fra i 5 e i 10 anni.