I farmaci ‘super-eroi’ che proteggono il cuore dal diabete

Uno dei fattori di rischio più importanti per la salute cardiovascolare è il diabete. Nei soggetti con pre-diabete e in quelli con diabete è dunque fondamentale mantenere un ottimo compenso metabolico, attraverso un corretto stile di vita e la terapia farmacologica. Negli ultimi anni, si sono resi disponibili sul mercato una serie di farmaci che, oltre a ridurre in maniera efficace la glicemia, sembrano avere anche un’azione diretta aggiuntiva di protezione cardiovascolare.

I maggiori esperti italiani di prevenzione cardiovascolare riuniti a Napoli in occasione del congresso annuale della Società Italiana per la Prevenzione Cardiovascolare, fanno il punto della situazione.

“Alcuni anni fa – riflette il professor Massimo Volpe, presidente della Società Italiana per la Prevenzione Cardiovascolare e ordinario di Cardiologia presso l’Università ‘La Sapienza’, Ospedale Sant’Andrea di Roma – è emerso un segnale d’allarme rispetto ad alcuni farmaci anti- diabete, che sembravano gravati da un maggior rischio di patologie cardiovascolari. Per questo motivo, le agenzie regolatorie americana (FDA) ed europea (EMA) hanno chiesto che per ogni nuovo farmaco anti- diabete immesso sul mercato, fosse dimostrata la sicurezza cardiovascolare da uno studio realizzato ad hoc. La grande e piacevole sorpresa degli ultimi anni è stata che i più recenti studi su GLP-1 agonisti e SGLT2 inibitori hanno dimostrato non solo la sicurezza di queste nuove molecole ma che, al di là dell’azione sul diabete, questi farmaci proteggono il cuore e i vasi, determinando una riduzione dello scompenso cardiaco e di alcuni eventi cardiovascolari”.

Nel trattare il diabete mellito di tipo 2, il principale obiettivo è quello di riuscire ad assicurare alla persona con diabete una ‘quantità’ di vita non inferiore a quella di un soggetto non diabetico, evitando al contempo, che la persona si ammali o muoia di malattie cardiovascolari o che veda la sua funzionalità renale ridursi in maniera pericolosa. L’iperglicemia rappresenta un importante fattore di rischio per morte, malattie cardiovascolari e insufficienza renale; di conseguenza, abbassare la glicemia rappresenta una strategia prioritaria nel cercare di raggiungere questi obiettivi.

“Di recente – afferma il professor Agostino Consoli, membro del consiglio direttivo della Società Italiana per la Prevenzione Cardiovascolare e ordinario di Endocrinologia presso l’Università di Chieti – è stato dimostrato che alcuni farmaci innovativi, che abbassano in sicurezza la glicemia, potrebbero avere un’ulteriore azione ‘diretta’ di protezione cardiovascolare. Queste osservazioni derivano dai risultati di grandi trial clinici condotti originariamente per dimostrare la sicurezza cardiovascolare di questi farmaci (come richiesto dalle agenzie regolatorie europea, EMA e americana, FDA). L’analisi finale dei dati ha però dimostrato che questi farmaci, quando aggiunti alla terapia ‘tradizionale’ nei pazienti diabetici, non solo si sono dimostrati (come atteso) sicuri rispetto al placebo, ma la loro somministrazione risulta associata ad una riduzione del rischio di sviluppare eventi cardiovascolari o di andare incontro a scompenso cardiaco. La riduzione degli eventi cardiovascolari (infarto del miocardio, ictus, morte da cause cardiovascolari) – prosegue il professor Consoli – sembra tuttavia verificarsi solo nei pazienti già affetti da malattie cardiovascolari (come pregresso infarto, pregresso ictus) ed è risultata associata sia al trattamento con farmaci della classe dei GLP-1 agonisti (farmaci iniettivi, che si somministrano sottocute una volta al giorno o una volta alla settimana), sia al trattamento con farmaci della classe delle gliflozine (o SGLT2- inibitori).

Questi ultimi sono farmaci che, inibendo il riassorbimento del glucosio, ne facilitano l’eliminazione attraverso le urine; inducendo la perdita di zucchero e di acqua, abbassano la glicemia e riducono la pressione arteriosa. Forse proprio in virtù della loro capacità di ridurre il volume di sangue circolante, il trattamento con questi farmaci è risultato associato anche ad una diminuzione della insorgenza di insufficienza cardiaca, e questo beneficio è stato osservato non solo nei soggetti che avevano già una malattia cardiovascolare in atto, ma anche in quelli con multipli fattori di rischio, ma non ancora clinicamente…’ammalati di cuore’. L’innovazione farmacologica ha dunque aperto nuove frontiere nel trattamento del diabete mellito di tipo 2, mettendo a disposizione del medico e delle persone affette da questa patologia strumenti terapeutici di grande maneggevolezza, con caratteristiche di efficacia e tollerabilità tali da poter cambiare gli esiti della malattia e di ridurne considerevolmente il ‘carico’, in una popolazione di persone costrette a convivere con una malattia cronica, come il diabete. “E’ ragionevole pensare – prosegue il professor Consoli – che queste terapie possano non solo aumentare gli anni di vita a disposizione delle persone con diabete, ma anche migliorare la qualità degli anni di vita guadagnati”.

Certo, anche l’innovazione tecnologica, come tutte le cose, ha un costo. E il costo delle terapie innovative è necessariamente più elevato rispetto al costo delle ‘vecchie’ terapie, che sono tuttavia meno efficaci e meno sicure. E’, e sarà compito della governance dei sistemi sanitari – conclude il professor Consoli – trovare la maniera di conciliare i maggiori investimenti necessari nel presente, con l’opportunità, offerta da questi farmaci, di assicurare risparmi nel futuro, considerando sempre il rapporto tra ‘prezzo’ e ‘valore’, e senza mai dimenticare proprio il ‘valore’ di una vita più lunga e di migliore qualità”.

“Nello sviluppo di una strategia terapeutica per il diabete di tipo 2 – spiega il professor Giorgio Sesti, membro del Comitato Scientifico della SIPREC e ordinario di Medicina Interna presso l’Università della ‘Magna Graecia’ di Catanzaro – va ricordato che l’iperglicemia non si presenta isolata ma fa parte integrante di una costellazione di alterazioni metaboliche, definite come sindrome metabolica, che comprendono dislipidemia, ipertensione arteriosa, obesità centrale, alterazioni della coagulazione e uno stato di infiammazione cronica di basso grado, che tendono a manifestarsi nello stesso paziente e concorrono ad incrementare il rischio cardiovascolare attraverso un processo di aterosclerosi accelerata. In particolare, la dislipidemia nei soggetti con diabete tipo 2 è molto comune (la prevalenza è del 72-85 per cento) ed è associata ad un significativo aumento del rischio di patologia coronarica”.

La dislipidemia osservata nei pazienti con diabete tipo 2 svolge un ruolo centrale nello sviluppo di aterosclerosi precoce. I pazienti con diabete tipo 2 si caratterizzano per diverse alterazioni del profilo lipidico: ipertrigliceridemia, diminuzione del colesterolo HDL, aumento delle LDL, alterazioni qualitative delle LDL e HDL che risultano più piccole e dense, aumento delle lipoproteine ricche in trigliceridi in fase postprandiale. “L’insieme di queste alterazioni – spiega il professor Sesti – costituisce la cosiddetta ‘dislipidemia diabetica aterogena’, che contribuisce all’aumentato rischio cardiovascolare caratteristico dei diabetici. La terapia con statine è la terapia di prima scelta per i pazienti iperglicemici con livelli di colesterolo LDL, non a target con il solo intervento non farmacologico”.

 

da Salute Domani