Come ho scoperto di essere diabetica

Veglia, buio, sete. Apro gli occhi e riconosco la mia stanza. Il mio letto, la luce rossa della tv, il chiarore proveniente dalle fessure della tapparella. Sono sveglia; ho la gola secca e un gran bisogno di bere. La bottiglia d’acqua è sul comodino, ne ingurgito a grandi sorsi quasi mezzo litro. Eppure ieri sera non ho bevuto alcolici. L’acqua non riesce a dissetarmi; ancora un sorso ma è come se tutto ciò che assumo fuoriuscisse dal mio corpo senza rilasciare alcuna proprietà. Appoggio la testa al cuscino. Sonno.

Sveglia. Mi alzo dal letto e barcollando raggiungo il bagno, tolgo la maglietta. Piede destro sulla bilancia, piede sinistro sulla bilancia. Quarantatre chili? Sono dimagrita ancora, eppure anche ieri ho mangiato al ristorante.

Non devo pensarci, non devo pensarci, ma è come se qualcuno si stesse cibando del mio corpo. Mi chiedo se sparirò o se di me resterà qualcosa.

Guardo l’agenda: Calvin Klein, doppia sfilata di Armani e Prada; cosa si fa per guadagnare qualcosa in più… Vesto le modelle, talvolta sono costretta anche ad allacciargli le scarpe, gli stilisti non vogliono che le ragazze si pieghino, potrebbero sgualcire i vestiti. Durante la settimana della moda il lavoro è frenetico, ci si sposta continuamente da uno showroom all’altro.

Solitamente non ho nessun problema, la mia resistenza allo stress e alla fatica è massima, ma oggi sono veramente stanca. Non ce la faccio non riesco a continuare a lavorare. Una lacrima scorre lentamente sul mio viso e C. se ne accorge: “Che hai?” mi dice. “Non lo so, non mi sento bene, ho bisogno di sedermi”. Con orrore mi accorgo che il punto vita della modella che mi sta accanto è quasi uguale al mio, probabilmente potremmo avere la stessa taglia; cosa mi sta succedendo?

Finalmente a casa. Mi lascio cadere sul divano. Squilla il telefono. La chiamata proviene da un numero che non conosco ma so già di che si tratta; mi sudano le mani.

“Pronto?”.

“La signorina C.S.?”.

“Sì sono io”.

“Qui è il laboratorio di analisi, volevo avvisarla del fatto che nei suoi esami del sangue c’è un valore molto più alto rispetto alla norma, sarebbe meglio che si facesse controllare, è importante che vada subito in ospedale!”.

All’improvviso un senso di vuoto e il panico si impossessa della mia mente.

Un’ora più tardi, seduta sul lettino della guardiola del pronto soccorso, cerco di rilassarmi ma senza raggiungere il mio obiettivo. Arriva un infermiere, è giovane e sembra simpatico, estrae dalla tasca del camice una specie di penna e un aggeggio elettronico che somiglia a un iPod. La penna contiene un minuscolo ago, con il quale il ragazzo buca la pelle del mio dito e preleva una goccia di sangue scuro da mettere su di una striscia di carta che fuoriesce dall’iPod. Compare un numero sul display: cinquecentosessantotto.

“Qui c’è una ragazza che rischia il coma, sbrigati con quella sedia a rotelle e falle un prelievo”.

Dopo aver pronunciato queste parole a un collega, l’infermiere si gira verso il mio volto attonito e aggiunge:  “Non preoccuparti, non si muore!”

Consolante.

Stesa sulla barella guardo la luce a neon sul soffitto mentre due infermieri mi attaccano a una flebo. Sono la protagonista di un telefilm ambientato in un ospedale americano. Uno di quei serial che non guardo mai in tv, dal momento che le malattie mi fanno una gran paura. Mi sono sempre chiesta se un giorno sarei mai stata sdraiata lì con infermieri e medici che si muovono intorno a me. Quel momento è arrivato e non riesco a pensare a nulla. Anzi mi chiedo se la mia vita sarà ancora la stessa, devo laurearmi e andare ad abitare con il mio ragazzo, di nuovo le lacrime. Questa volta però trattengo il pianto, non voglio farmi vedere debole.

Una trentina di minuti dopo arriva il dottore. Non riesco a pensare a nulla al di fuori di quelle persone che si lamentano di dover aspettare ore al pronto soccorso. Quanto avrei voluto aspettare cinque ore per sentirmi dire: signorina lei non ha nulla, prenda un antidolorifico. Invece no, in tempo record mi visitano ed eseguono gli esami necessari e questo non fa presagire nulla di buono.

All’improvviso un pensiero si insinua come un tarlo nella mia mente: se volessero tenermi qui? Io non sono mai stata ricoverata in ospedale.

“Signorina dovrà rimanere qui qualche giorno” dice il medico. Ecco l’incubo si sta avverando.

“Lei ha una malattia cronica, nel senso che non guarirà, ma potrà vivere ugualmente, le persone come lei sono il due per cento della popolazione mondiale e hanno una prospettiva di vita quasi normale”. Che cosa intende dire con quel “quasi”?

“Dovrà iniettarsi giornalmente un ormone che il suo corpo non produce più, fare sport e stare attenta all’alimentazione; dimenticavo, niente fumo né alcolici. L’ultima cosa: le capiterà di sentirsi male, porti sempre con sé due bustine di zucchero, se si sente svenire le sciolga sotto la lingua. All’inizio sarà molto difficile, ma dopo un po’ si abituerà”.

Punture? Alimentazione? Sport? Fermi tutti, qualcuno deve spiegarmi cosa sta succedendo. Potrò ricominciare a uscire? Laurearmi? Lavorare e magari fare un bambino?

La mia vita, la mia bellissima vita, programmata e piena di sogni e di speranze. Da qui non vedo più nulla.

Non vedo più la mia brillante carriera, la mia vita sociale piena di amici e aperitivi.

Stupidaggini, tutte stupidaggini. Non so perché ma nonostante sia sdraiata in un letto d’ospedale comincio a sentirmi fortunata.

Fortunata perché una vita “quasi” normale è pur sempre una vita. Cosa devono dire le persone che sono qui con me e magari lottano contro malattie che li distruggono poco a poco, giorno dopo giorno e contro le quali purtroppo non possono vincere?

È passato un giorno, passeggio in pigiama per il reparto, inizio a sentirmi meglio. Sono arrivati degli amici, ho visto i miei genitori e ho cercato di sdrammatizzare con autoironia.

Dal fondo del corridoio lo vedo arrivare, indossa la divisa da lavoro e sfoggia uno dei suoi sorrisi migliori. Si vede che è stanco e che non ha chiuso occhio, ma vedermi in piedi sembra rasserenarlo.

All’improvviso in quegli occhi scuri ricomincio a vedere me stessa, dovrò sicuramente affrontare molte difficoltà ma l’energia e la forza della vita mi sosterranno. Ecco che le infinite possibilità di scelta si mostrano di nuovo ai miei occhi. Un lavoro, forse una vita insieme, posso ancora sperare nel futuro.

Ci sono esperienze che modificano la propria percezione degli eventi. Ci sono problemi per i quali è assurdo sprecare energia, sarebbe sbagliato nei confronti di chi lotta per salvare la propria vita. Essere giovani e sani è già una conquista nonostante i più non se ne rendano conto.

 

 

di Chiara Salomoni